Il Tirreno

Sport

Calcio

Boninsegna, destino nel nome: gli 80 anni di uno dei più grandi bomber del Novecento

di Luca Tronchetti
Boninsegna, destino nel nome: gli 80 anni di uno dei più grandi bomber del Novecento

La storia del campione: «Inter nel cuore, sempre Scopigno il tecnico ideale, che paura in auto con Riva. E vorrei rigiocare con il Brasile»

13 novembre 2023
6 MINUTI DI LETTURA





Coraggio, istinto, personalità, incarnate in un’icona del calcio osannata dai tifosi nerazzurri di ogni epoca, uno dei più grandi centravanti del secolo scorso capace in sette stagioni trascorse con l’Inter di segnare 171 reti in 281 partite, conquistare lo scudetto 1970-71 e vincere per due volte consecutive il titolo di capocannoniere.. Oggi Roberto Boninsegna buca la rete del tempo e segna il gol della vita numero 80. Per celebrare il campione e l’uomo si compongono canzoni e frasi memorabili come nel film del rocker tifoso doc Luciano Ligabue “Radiofreccia” quando il protagonista recita un monologo che ha come incipit “Credo nelle rovesciate di Bonimba” ricordando l’incredibile prodezza balistica in area contro il Foggia su cross dalla sinistra di Facchetti che regalò l’undicesimo titolo alla sua Inter. «Sono diventato tifoso di quei colori da ragazzino – racconta in attesa di festeggiare a casa con la moglie Ilde, i figli Gianmarco (avvocato) e Elisabetta (psicologa) e i quattro nipoti tra cui l’ultimo, Riccardo, 6 anni, promette di emulare le gesta del nonno – vedendo giocare Skoglund, Nyers e Lorenzi. Da mamma Elsa, tifosa dal Mantova a tal punto che in cinta di otto mesi rischia di mettermi al mondo sui gradoni del velodromo Learco Guerra (ora stadio Martelli), mi feci cucire la prima maglietta nerazzurra».

Falce, martello, crocefisso

Babbo Bruno, operaio, sindacalista in fabbrica della Cgil e terzino della squadra aziendale, vuole che il suo unico figlio frequenti la parrocchia per poter ottenere i sacramenti. Lui in poco tempo si trasforma da mediano a centrattacco con la squadra dell’oratorio mantovano di Sant’Egidio. «Ci chiamavano gli Invincibili: due anni (1956/58) senza mai perdere una partita e la prima sconfitta arrivata per colpa della monetina. Per giocare però dovevi servire a messa e frequentare il catechismo. Ti punivano se scappavano le parolacce, ma alle partite erano poco ecumenici. Mia madre, vera padrona della casa, sentenziò prima di farmi firmare per l’Inter decise che sino a 15 anni avrei fatto il pendolare da Mantova a Milano».

Meazza, Scopigno e il Trap

Il Balilla è stato il suo primo maestro nelle giovanili nerazzurre: «Meazza mi ha insegnato tanto a livello tecnico e comportamentale. Grazie a lui ho segnato 19 rigori consecutivi. Mi spiegava di non prendere la rincorsa centralmente, ma scegliere una vita laterale destra o sinistra non faceva differenza. E mi accorsi che i portieri non capivano e la palla entrava in porta». Manlio Scopigno, il tecnico filosofo avuto a Cagliari, è stato il miglior allenatore in carriera: «Era disincantato e curava poco il lavoro sul campo, ma indovinava tutti i cambi e aveva un’arguzia e un’ironia fuori dal comune». Con Trapattoni alla Juventus grande stima, ma poca empatia perché lo lasciava sempre in panchina. «È stato un grande professionista, che si preoccupava persino dei tacchetti delle scarpe, ma sulle sue scelte è meglio sorvolare. Alla vigilia delle partite, in allenamento mi piaceva calciare i rigori e poi tirare al volo sui cross. Ricordo che un giorno stava piovendo e ne ho calciato uno altissimo sopra la traversa. Giuan si avvicina e mi fa “Bobo, vuoi che ti dica dove hai sbagliato?”. Io, che non avevo peli sulla lingua replico: “Scusa, ma tu quanti gol hai fatto da professionista” e lui di rimando “Sei o sette”. A quel punto mi metto a ridere: “Io 160 e quindi vedi di non rompere...”. Beccai 150mila lire di multa, ma poi amici come prima».

Il mio amico Riva

«Ho giocato con Gigi tre anni oltre al periodo della nazionale. In ritiro dormivano nella stessa camera, eravamo come fratelli e ancora oggi ci sentiamo al telefono. Un’amicizia così forte la nostra che io ho avuto il fegato di salire in macchina con lui. Aveva un’Alfa Romeo Quadrifoglio truccata. Non c’erano le cinture e lui pigiava a tavoletta sull’acceleratore tanto da fare le curve su due ruote. Appena sceso ho fatto l’assicurazione sulla vita».

La maxi squalifica

Undici turni poi ridotti a nove in un Varese-Cagliari del 1968: «Mi ero presentato a tu per tu con il portiere e con un pallonetto l’avevo scavalcato quando sulla linea di porta si tuffa lo stopper che non ci arriva di testa e colpisce con un braccio. L’arbitro indica il corner e il guardialinee gli viene dietro. Ci precipitiamo in quattro attorno al direttore di gara: io, Riva, Nenè e Greatti. Alla fine puniscono solo me perché mi resta in mano un pezzo di stoffa della giacchetta dell’arbitro. Così mi giocai la maglia azzurra agli Europei».

Fermo posta Inter

“Bonimba”, soprannome voluto da Gianni Brera, vince il torneo di Viareggio, ma il potente direttore dell’Inter, il mantovano di Suzzara Italo Allodi, anziché inserirlo in prima squadra lo manda a giocare per farsi le ossa in B, prima a Prato e poi a Potenza: «In Toscana le ossa me lo sono spaccate sul serio. Al debutto tra i cadetti a Padova per un’entrata assassina di un difensore mi sono spaccato il quinto metatarso del piede destro e ho avuto una distorsione al ginocchio. Torno all’Inter e scopro che Helenio Herrera non mi vuole. Chiedo ad Allodi di essere mandato a giocare in Lombardia e lui mi spedisce a Potenza».

Fraizzoli e Agnelli

Impulsivo, franco, sincero sino alla sfrontatezza come quando nell’estate del 1976 mandò a quel paese il presidente nerazzurro Ivanoe Fraizzoli: «Ero in spiaggia a Forte dei Marmi e mi arriva una telefonata dall’Inter. Il patron mi annuncia che mi avevano venduto alla Vecchia Signora. Non fa in tempo a finire la frase che gli rispondo secco “Alla Juve ci vada lei”. All’epoca non c’erano i procuratori e fui costretto a far le valigie. Ma sul contratto imposi a Boniperti di non farmi giocare a San Siro contro l’Inter. Nel compenso, per vendicarmi di quella cessione, alla prima sfida a Torino rifilai una doppietta ai nerazzurri». Alla Juventus tre stagioni 93 partite, 35 gol.

La lattina e i rimpianti mondiali

Nell’immaginario collettivo è rimasto il ricordo della lattina di Coca Cola lanciata dagli spalti che lo colpì alla nuca contro il Borussia Monchengladbach: «Avevo appena segnato il gol che riapriva la partita quando dagli spalti qualcuno lancia una lattina che mi colpisce violentemente alla nuca. Sono stramazzato al suolo e ho perduto i sensi: mi sono ritrovato qualche minuto dopo negli spogliatoi con il medico che mi guardava preoccupato. La partita l’ha vinta Mazzola che ha recuperato il corpo contundente che Netzer aveva allontanato dal campo e lo ha consegnato all’arbitro. Rimpianti? Forse uno ce l’ho. Vorrei rigiocare la finale mondiale del 1970 con Rivera in campo dall’inizio. Valcareggi sbagliò tutto. Domenghini era cotto e lasciare fuori l’Abatino contro il Brasile di Pelé fu imperdonabile. Sul 3-1 mi ha sostituito perché Mazzola si era rifiutato di uscire. Ero così arrabbiato che ho buttato le scarpe verso la panchina».
 

Italia e Mondo
Parma

Neonati sepolti, i Ris tornano a scavare nel giardino degli orrori – Video

Sportello legale