Il Tirreno

Prato

Il personaggio

Addio a Toccafondi, il presidente con Prato e il Prato nel cuore

di Paolo Nencioni

	Andrea Toccafondi, ex presidente del Prato
Andrea Toccafondi, ex presidente del Prato

Amato e odiato, mai banale, ha guidato la società di calcio per 42 anni. Diceva: «In Serie B ci voglio andare, ma coi conti a posto»

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PRATO. L’hanno amato, poi l’hanno odiato e ora forse a qualcuno toccherà rimpiangerlo. Andrea Toccafondi, storico presidente del Prato calcio, se n’è andato ieri, 29 gennaio, all’età di 78 anni nella sua casa in provincia di Bergamo, dove si era trasferito da più di vent’anni per curare i suoi affari. Ma restando sempre un pratese doc, con Prato e il Prato nel cuore.

Logico dunque che il funerale sarà celebrato nella chiesa di Santa Maria della Pietà, sabato alle 16, e sulla bara, in ossequio alle sue volontà, ci saranno i colori biancazzurri.

Se c’è un personaggio al quale si può cucire addosso un termine molto in voga da qualche tempo, cioè divisivo, questo è stato Andrea Toccafondi. O con lui o contro di lui. Mai banale però. Sempre pronto a fare la guerra contro tutti, se c’era bisogno, ma anche attento a tessere i rapporti che si sono rivelati decisivi nella sua esperienza calcistica e in quella imprenditoriale.

Aveva poco più di trent’anni e qualche soldo in tasca, nel 1979, quando si mise in testa di comprare il Prato. Lo rilevò «all’imbracciata», come diceva lui, dai fratelli fiorentini Senatori, che l’avevano preso quattro anni prima per risollevarne le sorti sportive. E all’inizio fu una lunga luna di miele coi tifosi. Nel giro di pochi anni la squadra sfiorò per due volte la promozione in Serie B, che non sarebbe mai arrivata sotto la sua gestione. Il Lungobisenzio era quasi sempre pieno e si vedeva anche un bel calcio.

Poi, finito lo slancio, cominciò a calare anche l’entusiasmo intorno alla squadra e iniziò un lungo stillicidio di campionati anonimi di Serie C, dalla C1 alle C2 e viceversa, senza mai un acuto, mentre le altre società toscane andavano sull’ottovolante, tutte o quasi col loro momento di gloria, che fosse la Serie B o la Serie A, anche la rivale storica Pistoiese, anche l’Arezzo o la Lucchese, per dire. Il Prato no. Sempre inchiodato alla C, forse per sfortuna, forse per mancati investimenti. Di sicuro a Toccafondi nessuno ha mai potuto dire di aver fatto il passo più lungo della gamba, come a tanti suoi colleghi. «In Serie B ci voglio andare – diceva – ma ci voglio andare da vivo, non coi debiti». Ricerca del successo sportivo, dunque, ma attenzione al bilancio. E se c’era da scegliere tra le due cose, il bilancio veniva sicuramente prima. A un certo punto questo discorso ha stancato una parte della tifoseria ed è iniziata una guerra nella quale nessuna delle due parti ha fatto un passo indietro. I tifosi contestavano, Toccafondi tirava dritto. Lo stadio era semi-deserto, lui non ci faceva caso, fino a quando il Prato per alcuni, non pochi, diventò la “Toccafondese”, il giocattolo di famiglia che il patron voleva continuare a gestire a modo suo. A chi gli chiedeva del bilancio, tirava fuori un bloc notes e diceva «è tutto qui, il calcio è fatto di mediani e terzini, e alla fine della stagione c’è da rimettere un miliardo, con le cessioni». Prima di cederlo a Stefano Commini, nel 2001, Toccafondi è stato presidente del Prato dal 1979 al 1991, dal 1996 al 2006 e ancora dal 2007 al 2014, ma di fatto lo ha governato per 42 anni, un record di longevità difficile da battere, soprattutto nel calcio di oggi. Un calcio, quello attuale, che non contempla personaggi come Andrea Toccafondi, uno che basava le sue strategie sui rapporti personali (coi presidenti di Torino, Atalanta, Inter, Juventus) e sulle strette di mano. Incompatibile con lo strapotere dei procuratori. Uno che comunque ha fatto passare dal Lungobisenzio gente come Matri, Legrottaglie, D’Aversa, Maccarone, Diamanti, Vieri, solo per citarne alcuni.

Quanto al Toccafondi imprenditore, è nato con la Trasporti Toccafondi che serviva le aziende tessili, poi ha fondato la Koiné, con sede prima a Calenzano e poi a Bergamo e filiali in varie parti d’Europa, grazie ad accordi spesso in esclusiva con grandi e grandissime aziende. Ma con un occhio sempre alla sua squadra. Come all’inizio degli anni Ottanta, quando si seppe della sua esposizione miliardaria verso la Cassa di risparmio finita a rotoli. «Ma che posso pensare a queste cose? – diceva –  Domani c’è il Ponsacco...».

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