Gin “made in Volterra” dall’Expo di Londra del 1862 all’enoteca vicino al Guarnacci
Origini del distillato la cui produzione fu avviata dal granduca Leopoldo II e che, grazie a una ricerca storica, viene riproposto all'enoteca Vena di Vino
VOLTERRA. «What’s this? ». Probabilmente nel lontano 1862 a Londra qualcuno lo avrà chiesto, con perfetto accento british, al toscano Leopoldo Marchi cosa fosse “this”, il “Gin and spirits of the arbustus”. Nulla di trascendentale, se non fosse che questo distillato ottenuto dalle bacche di ginepro arrivava dalla piccola, e per l’epoca remota Volterra. Proprio così: un liquore della terra degli alabastri presentato nella patria del gin alla Grande esposizione di Londra, a South Kengsington, del 1862. Una storia talmente assurda da rasentare il fantascientifico. Macché: era tutto vero. Ed è una storia con un duplice lieto fine.
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Perché rischiava di cadere nel dimenticatoio, sennonché un giorno una copia del catalogo dell’Expo di Londra in un mercatino dell’antiquariato finisce nelle mani giuste. E perché oggi, tra i vicoli di Volterra, quel gin si può gustare. Merito di Bruno Signorini e Lucio Calastri, i due soci dell’enoteca “La vena di vino” a due passi dal museo etrusco Guarnacci che hanno riportato in auge il distillato a km zero.
«È stata un scoperta sensazionale – dice Signorini, che si emoziona nel raccontare una storia narrata svariate volte – faccio parte di un’associazione culturale, il Collettivo Distillerie, che si occupa di ricerche storiche locali sulla liquoristica perduta, ma anche sul lavoro degli alabastrai: nessuno ne sapeva nulla fino a qualche tempo fa. Ero in cerca di cataloghi delle esposizioni universali dell’Ottocento e trovai quello ufficiale di Londra del 1862, stampato dalla Majesty’s Commisioners Foreign Division: c’erano incredibilmente scritte le parole “Gin” e “Volterra”. Lo aveva portato Leopoldo Marchi, direttore della Reale Tenuta San Lorenzo nella nostra città, che con grande successo lo aveva presentato. Pensavo che da Volterra avesse portato sale, rame, alabastro. Ma il gin, no, non l’avrei mai detto. In più a Londra. Era come vendere il ghiaccio agli eschimesi. Sembra paradossale, ma andò proprio così».
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Eccitato dalla scoperta, Signorini approfondisce l’argomento. Inizia a setacciare archivi, anche sul web. Fino a risalire a metà Ottocento, «quando Leopoldo II, granduca di Toscana, nel 1853 fece nascere a Volterra la prima produzione industriale italiana di gin. Una vera distilleria dove si produceva anche un liquore al corbezzolo e un fumetto d’anice. All’epoca era conosciutissima nelle grandi esposizioni e ha avuto un’evoluzione durata decenni per poi andare perduta. E se non si fosse incappati in questo catalogo...».
Meglio non pensarci. Concentriamoci su questo per nulla fantomatico gin di Volterra: «Ci occupavamo di vecchi liquori, vermut, bitter o amari – prosegue Signorini – ci è sempre piaciuta la liquoristica artigianale. Il gin, però, è stata un’autentica novità. Abbiamo stipulato una convenzione con la Regione e le comunità montane per raccogliere bacche nella riserva naturale della Foresta di Berignone, più di duemila ettari fra Volterra e, appunto, Berignone: andiamo col corbello a fare il ginepro e lo portiamo in distilleria».
E il gin “made in Volterra”, come direbbero i londinesi, ha riscosso un successo inaspettato: «Giusto qualche giorno fa siamo stati contattati da Raidue... Oggi il gin è tornato di moda, non solo in un ambito festaiolo come base per i cocktail. Quello che fa la differenza, nel nostro caso, è proprio la storia, che abbiamo raccontato in un libro intitolato “Gli spiriti del bosco” sui liquori ricavati da piante nel Volterrano».
E in un mondo globalizzato offrire un prodotto interamente locale «può essere un punto di forza» secondo Signorini, che si definisce «un mercante di liquori». Il km zero è fondamentale. Il bosco è il nostro mare dove andiamo a “pescare” prodotti specifici e dimenticati, con l’aiuto di botanici. Perché sì, siamo buoni ricercatori - e bevitori - ma serve competenza scientifica».
Che poi porta a proporre nella loro enoteca, oltre a vini, salumi e formaggi, «il ginepro che facciamo distillare. È la strada giusta. Se poi manca un tipo di spezia, erba o scorza che da noi non si produce, si creano scambi di commercio equo e solidale. Non pensavo che dietro i liquori ci fossero tutte queste erbe e spezie...».
A proposito: è allo studio un nuovo distillato. «Andiamo a ripescare ricette antiche, e vediamo se si possono riproporre con quello che c’è nel bosco, oppure quello che troviamo diventa fonte d’ispirazione: dopo il gin e il liquore al corbezzolo stiamo studiando un infuso alcolico con il ligustro, una pianta nota fin dagli Etruschi. Ma ci sarebbero pure il mirto, il dittamo, l’iris. La nostra strada ormai è tracciata».
Come le rotte dei vecchi mercanti che salpavano i mari procellosi. Oggi, per fortuna, basta navigare in Internet per farsi conoscere e raggiungere le destinazioni più remote. Altro che Londra...