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Pisa, addio al professor Johnson: il londinese erede del Circolo pisano. I ricordi del figlio Roan

di Giuseppe Boi
Pisa, addio al professor Johnson: il londinese erede del Circolo pisano. I ricordi del figlio Roan

Il figlio Roan, regista e scritto: «Un grande campus, civiltà e il mare: per questo ha scelto Pisa»

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PISA. Da una parte «il brillante studioso, docente amato dai suoi allievi, che ha consacrato la vita allo studio delle lettere indagando, con passione e ineguagliabile sottigliezza analitica, le intricate trame fonosimboliche, anagrammatiche e semiologiche della parola poetica in ambito anglofono». Dall’altra «un londinese che ha scelto la Toscana e Pisa in particolare cominciando come bagnino a Calambrone, un babbo che lavorava tantissimo ma super positivo che ti dava una pacca sulle spalle e ti faceva i complimenti anche per le quali, magari, non le meritavi del tutto». Sono le due facce di Anthony Leonard Johnson, già professore ordinario di Letteratura inglese all’Università di Pisa. È morto domenica all’età di 85 anni e oggi sarà ricordato alle 15, presso la Pubblica Assistenza di via Bargagna. A raccontare l’accademico – nato a Londra nel 1939 e, dopo un periodo all’Università di Firenze, trasferitosi nell’Ateneo pisano nel 1983 assumendo prima la cattedra di Lingua e Letteratura inglese nella Facoltà di Lettere e Filosofia e poi l’incarico di vicedirettore del Dipartimento di anglistica dal 2003 al 2006 – sono, rispettivamente, i colleghi del Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Unipi e il figlio Roan Johnson, lo sceneggiatore, regista e scrittore pisano.

Chi era il professor Johnson?

«Era un vero workaholic (maniaco del lavoro, ndr). In parte lo sono anche io, ma non ai suoi livelli. Stava nello studio a leggere, sottolineare libri e a battere con la macchine da scrivere. Io vivevo tutto questo sia con una sorta di ammirazione sia con avversione perché dovevo un contendere la sua attenzione».

E ci riusciva?

«Sì, è sempre stato un mio fan e mi ha sempre supportato. Quando andavo a scuola o quando facevo la corsa campestre, e magari arrivavo ventisettesimo. Lui trasmetteva sicurezza e autostima. Sapevo che da parte di mio padre avrei avuto sempre e comunque supporto».

Cosa hai preso da lui?

«Oltre a un rapporto maniacale col lavoro, l’amore per la poesia. Gli dicevo che lavorava troppo, ma poi mettevo dei fogli nella macchina da scrivere e lo imitavo. Lui è partito volendo fare il poeta e poi è diventato professore, così come io son partito scrivendo poesie e da lì i racconti e quindi, un po’ per caso, al cinema. E poi l’humor: io sono influenzato soprattutto dalla toscanità, ma c’è in me qualcosa del suo sottile umorismo».

Quello di un inglese a Pisa?

«Mio babbo non è il primo inglese che si innamora della Toscana e di Pisa. Lui stesso ha scritto un libro su Percy Bysshe Shelley e George Gordon Byron (animatori del Circolo pisano, un gruppo di poeti e letterati britannici riunitisi a Pisa tra il 1820 e il 1822, ndr). Credo gli piacesse perché aveva una serie di componenti: una sorta di grande campus universitario a cielo aperto, un grado di civiltà alto e la vicinanza al mare che amava: faceva lunghi bagni, d’estate ma anche d’inverno; correva sulla spiaggia, sia a Marina di Pisa sia a Marina di Vecchiano».

E la sua londinesità?

«Veniva da una famiglia borghese o alto borghese di una Londra che, negli anni in cui l’ha lasciata, era la capitale del mondo. Ma lui amava mescolarsi e io stesso mi sento mescolato da due culture diverse: la sua e quella di mia madre, donna del sud, crescita nei Sassi che tanto vanno ora di moda. Un clash culturale a cui si è poi aggiunta anche Pisa». 


 

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