Marco Benvenuti, il livornese milionario e l’amore per il basket: «Porto Libertas e Jolly in A1»
L’imprenditore spiega da Las Vegas tutti i suoi progetti: «Non sarò presidente ma sono pronto a fare la mia parte. E amo il femminile»
LIVORNO. 9573 chilometri d’amore. Il filo rosso che lega Las Vegas a Livorno è ben saldo nelle mani di Marco Benvenuti. Dal 1999 vive negli States. In 26 anni, il figlio dell’ex Sindaco di Livorno e poi senatore PCI, Roberto, ha realizzato con successo molti progetti imprenditoriali. La laurea di Hotel Management alla University of Nevada, conseguita all’indomani dell’11 settembre, sancì l’apertura di nuovi, sconfinati orizzonti per questo ragazzo partito da Livorno con il diploma di maturità classica ed 11 esami in Scienze Politiche a Pisa. Da allora Marco, di strada ne ha fatta. Con il tempo, grazie alla specializzazione alla Cornell University è diventato un guru nel revenue management, il sistema di gestione delle disponibilità delle camere d’albergo e che ha come obiettivo la massimizzazione e l’ottimizzazione del volume di affari delle strutture ricettive. Nel 2010 Benvenuti ha inventato un programma che stabilisce i prezzi degli hotel. Un sistema utilizzato da 6000 alberghi in 60 paesi. Da un semplice foglio “excel” ad un’app il passo è stato breve. Marco lo battezza Duetto. È il boom. Duetto “dialoga” con Expedia, Booking. Apre sedi in mezzo mondo, vanta 150 dipendenti. Fino alla vendita avvenuta nei mesi scorsi. E che ha consentito a Benvenuti di incassare la propria parte di quote. Ed è qui che il filo rosso lungo 9573 chilometri ricongiunge quasi fisicamente Las Vegas e Livorno. Questione di radici, di origini, di cuore «Eh sì – dice subito – il mio luogo del cuore è il PalaMacchia, dove ho contratto il “virus” della passione per il basket. Andavo tutte le domeniche con i miei genitori: Pielle e Libertas. Per dovere istituzionale, dato che mio padre era sindaco».
Poi scelse…
«Sì. La Libertas era più coinvolgente. Praticava un basket bellissimo e divertente. Ricordo la prima partita. Si chiamava Cortan. Fu amore a prima vista».
Ma suo padre doveva rimanere super partes…
«Il patatrac avvenne il 4 gennaio 1987. Vincemmo il derby di 39 e il mitico Vezio Benetti anziché intervistare mio padre, rivolse la fatal domanda a mia madre: “É contenta? ”. Lei rispose “Sì, siamo supertifosi della Libertas”. E così mise in difficoltà mio padre».
É notizia delle scorse settimane, il suo sostegno al Jolly Acli Basket. Lei è già impegnato nella Libertas. Come nasce la passione per la pallacanestro femminile?
«Per caso. Molti amici qui in America mi consigliavano di seguire il femminile, ma non ne ero attratto. Poi nel 2017 San Antonio spostò la franchigia a Las Vegas e iniziai ad andare alle partite delle Aces insieme ad altri 4mila. Pochi rispetto alla capienza di 11mila della nostra Arena. All’inizio perdevamo sempre. Poi le ragazze sono cresciute fino a vincere due titoli. Adoro Aja Wilson. È arrivata da rookie e ci ha permesso di vincere il titolo. Ha pure trascinato gli Usa all’oro olimpico a Parigi».
Ma tra le Aces e il Jolly Acli Basket c’è di mezzo l’Oceano…
«Vero, ma ci sono delle analogie. Le ragazze livornesi sono in serie A. Giocano bene. C’è un’opportunità che Livorno non riesce a vedere. In questo senso la città va svegliata. Per cui mi sono detto che dovevo “comprare il Jolly”. A dire il vero il mio amico Giuseppe Arrabito ha provato a farmi recedere dal mio intento, ma alla fine ha accettato di buon grado la mia scelta ed è stato felice di aiutarmi».
Con quali propositi?
«Il club può diventare una grande realtà del basket nazionale. Può dare lustro alla città e riempire il PalaMacchia. L’idea è di salire in A1 per attrarre sponsor e altri investitori».
É noto anche il suo impegno in Libertas. Quello nel Jolly esclude quello in LL?
«Assolutamente no. Non mi tiro indietro dalla Libertas. Anzi. Ritengo che avere troppi brand diversi sia controproducente. Mi piacerebbe che il Jolly Acli diventasse la Ladies Libertas. Il brand principale è la Libertas Livorno. Portare entrambe le squadre in A1 sarebbe uno spasso».
Come si immagina il futuro?
«In A1. Con il palazzetto pieno. In questo modo si innesca un circolo virtuoso, in grado di attrarre il mondo imprenditoriale. Quando le società sono serie smuovono passioni, non è difficile crescere».
La sua Libertas sta lottando per rimanere in A2…
«É normale. Era in C fino all’altro ieri. Spero che ci possiamo salvare, perché la A2 è il mattone su cui costruire e creare un alto livello di professionismo. Nessuno l’anno scorso pensava di vincere il campionato. É accaduto. E adesso l’idea è di portare dentro professionisti del basket che aiuteranno il club a fare il salto. Ad esempio. Serve uno sponsor importante, visto che siamo una delle pochissime squadre senza main brand sulla maglia».
Lei è pronto a fare la sua parte, quindi…
«Certo. Se la LL chiama, Marco risponde e viceversa. Non voglio diventare presidente, sono qui per aiutare. Contiamo che qualche knowhow me lo sono costruito. Qualcosa ho visto. Alla LL dico: “utilizza Marco nel modo migliore”. Non penso nemmeno di diventare GM perché servono competenze specifiche. Insomma: prendiamo professionisti per creare organigrammi da professionisti. La Libertas è una società seria e come tale deve essere conosciuta anche al di qua dell’Oceano. Stesso discorso per il Jolly. Sono lontano fisicamente, ma vicinissimo ai due club».