Livorno, lo sfogo di una madre: «Schiaffi e minacce a mio figlio, la sua vita rovinata da un bullo»
Il racconto della donna dopo due anni di calvario: «Durante una gita di tre giorni a Capraia costretto a dormire sul pavimento. In casa abbiamo nascosto i coltelli perché temevamo che potesse farsi del male»
LIVORNO. «No, non ti appoggiare sul letto. Stanotte dormirai lì, per terra». Lui, il bullo, è in piedi e lo sovrasta, mentre con il dito indica il pavimento. L’altro, la vittima, lo fa. Si accoccola al suolo mentre la mente vaga. Pensa al mare, al sole, a quella gita che aspettava da tanto. Ma nulla scalda il suo cuore e dentro di sé sente soltanto il vuoto e il freddo della solitudine. Tutti e due hanno undici anni e sono compagni di classe. E chi racconta questa storia – piena di sofferenza ma anche di coraggio – è una madre livornese (di cui omettiamo le generalità per tutelare la vittima minorenne) che attraverso gli occhi di suo figlio ha vissuto l’inferno.
A distanza di due anni – precisa – è convinta di conoscere soltanto una parte degli atti di prevaricazione (che forse però sarebbe più corretto chiamare abusi) che suo figlio ha subito. Si è tanto arrabbiata – dice – e spesso si è sentita frustrata, impotente. Ha cercato dei colpevoli, si è aggrappata anche alla rabbia. Poi ha capito che non era quella la strada. «Allora ho concentrato tutte le energie positive su mio figlio – precisa – ma in questa storia ci sono due grandi assenti: la scuola, prima di tutto, e poi anche i genitori degli altri ragazzi».
Quando tutto è iniziato
Era novembre del 2022 e Alberto (nome di fantasia), ragazzino intelligente e molto autonomo, era andato a casa di un compagno per fare una ricerca. Con loro c’era anche Matteo (nome di fantasia), quello che fino a quel momento considerava un amico. «Quando quella sera mio figlio torna a casa, racconta a me e a mio marito che Matteo gli ha tirato due schiaffi – spiega la madre – . Pensavamo fosse una bravata, una discussione tra ragazzini, e questo è stato un grave errore. Alla fine, Matteo chiede scusa e tutto sembra essersi ricomposto, ma non è così». L’altro episodio – forse anche più grave del primo – avviene durante una gita di tre giorni in Capraia. «Tornato da quell’esperienza, Alberto è tesissimo, poi ha un’esplosione di rabbia: “Te l’avevo detto mamma, le sue scuse non erano sincere. L’ha fatto di nuovo”». Questa volta – secondo quanto raccontato dal ragazzo – il suo compagno di classe prima gli ha tirato uno schiaffo, poi lo ha costretto a dormire sul pavimento per due notti.
Il branco
È l’inizio di un’escalation di dolore mentre la classe assiste, in silenzio, alle prevaricazioni. «Mio figlio si è sentito abbandonato due volte – prosegue a raccontare la donna – : dai suoi compagni di classe e anche dal sistema scolastico, in un momento, quello dell’adolescenza, già di per sé difficile. Gli altri ragazzi hanno voltato le spalle ad Alberto e lui ha molto sofferto per questo. Sono convinta che il bullo per primo abbia delle insicurezze e delle fragilità, ma attraverso gli atti di prevaricazione riesce a creare una cerchia di seguaci che spesso lo assecondano per non essere presi di mira a loro volta. Questo è quello che è successo a mio figlio perché in fondo la classe è un microcosmo, lo specchio della nostra società che chiede alle nuove generazioni di essere sempre più performanti, perfetti. Noi lo abbiamo imparato a nostre spese».
Gli atti
Trascorse le vacanze estive, Alberto torna a scuola, nella stessa classe. I genitori chiedono un incontro in cui fanno presente quello che è successo durante il precedente anno scolastico per evitare che possa ripetersi. «La preside dice che gli insegnanti non si sono accorti di nulla, ma se dovesse succedere qualcosa può parlarne con loro», spiega la madre. Ma tutto ricomincia. Non solo gli schiaffi, ma il gruppo forma un cerchio intorno ad Alberto mentre lo spintonano, gli rubano la merenda dallo zaino, lo indicano e lo deridono. E Matteo vuole cancellarlo da una chat di gruppo. Poi gli scrive: “Vieni al parchino, ti sistemo io”. È questo il calvario che Alberto affronta ogni giorno fino a quando qualcosa dentro di lui si rompe. Prima arrivano i conati di vomito (senza però vomitare), poi gli attacchi di panico. «Basta, io a scuola non ci vado più», dice una sera, lo sguardo rivolto a terra, ormai sull’orlo del pianto. E l’abisso di dolore si apre. “Non valgo nulla, mi voglio ammazzare”, sono le parole di un ragazzino che ora ha 12 anni. «Non nego che abbiamo nascosto tutti i coltelli in casa», dice la madre. È l’inizio di un percorso lunghissimo, fatto di sedute dallo psicoterapeuta, visite in Neuropsichiatria infantile e di solitudine. «Alberto si è assentato molti mesi da scuola con certificato medico ma dal giorno in cui è uscito da quella classe mai nessuno, né la preside né gli insegnanti né i suoi compagni, si sono mai informati sulle condizioni di salute di mio figlio – racconta la madre – e anche le altre mamme hanno sempre fatto finta di nulla, come se il problema non esistesse».
La rinascita
Sono passati circa due anni da quando l’incubo è iniziato. «Nel frattempo Alberto ha cambiato scuola e l’istituto in cui si trova adesso non si è voltato dall’altra parte quando si sono verificati alcuni atti di prevaricazione, risolvendo il problema – conclude la madre del ragazzo – . Siamo molto orgogliosi di Alberto, è tornato a prendere voti molto alti e oggi si vuole più bene, gli è tornato il sorriso – conclude la madre del ragazzo – . Ai genitori dico: con i vostri figli siate accoglienti ed empatici, mai giudicanti. E ascoltateli, coltivate il dialogo. Alla scuola, invece, vorrei dire di ritrovare il suo ruolo educativo: mio figlio è stato lasciato solo a combattere una battaglia più grande di lui che avrebbe anche potuto costargli la vita. Riflettete».
(4/continua)