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La sentenza

Livorno, Picchetto occupato: condanna di 2 anni al leader del collettivo

di Stefano Taglione

	Un momento dello sgombero del palazzo del Picchetto da parte del Comune (foto Pentafoto)
Un momento dello sgombero del palazzo del Picchetto da parte del Comune (foto Pentafoto)

Per il giudice ci fu tentata estorsione. «Si pagava per viverci»

23 settembre 2024
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LIVORNO. Per occupare il Picchetto c’era chi pagava. E – prima secondo la procura, poi in parte pure per il tribunale – là dentro ci sono stati tentativi di estorsione, come nel tempo denunciato dal sindacato Asia Usb, che all’epoca in piazza Guerrazzi aveva organizzato una manifestazione di protesta. Si è concluso, in primo grado, il processo sugli “affitti” nell’edificio del centro, occupato abusivamente per tre anni fino al maggio 2019, quando il Comune lo liberò in una maxi-operazione che andò avanti per quasi 12 ore.

Condannato a due anni per una tentata estorsione nei confronti di una donna peruviana il cinquantenne croato Medzit Alimovic (da tutti conosciuto come Valentino), che al Picchetto era stato prima vicepresidente, poi responsabile di un collettivo che ne raggruppava alcuni occupanti. Per lui, la procura, aveva chiesto cinque anni e mezzo per due diverse estorsioni: su una è stato assolto, per l’altra il reato è stato riqualificato nel tentativo. Assolti gli altri due imputati: sono l’imbianchino calabrese di 53 anni Giuseppe Gentile – per qualche mese presidente dello stesso comitato di Alimovic che raggruppava alcuni inquilini della struttura e accusato di estorsione – e il trentasettenne albanese Regerti Gega, alla sbarra invece per tentata estorsione. Una quarta persona (Saiffedine Dahou) era stata invece condannata negli anni scorsi in rito abbreviato.

I tre sono stati difesi dagli avvocati Gabriella Citti, Nazario Urbano e Barbara Bosi. «L’ambito dell’accusa si è molto ristretto – spiega Urbano, che difende Alimovic – e, in attesa di leggere le motivazioni della sentenza, posso già dire che faremo ricorso in appello». Le difese, nel corso del procedimento, hanno sempre respinto l’ipotesi dell’estorsione, spiegando che al massimo i soldi versati servivano per ripagare le grosse spese da sostenere. Secondo l’accusa invece ci sarebbero stati pagamenti sotto minaccia, ma di fatto tutti i capi di imputazione in merito all’estorsione sono caduti.

Uno degli imputati ora assolti, Gentile, in un’udienza era stato ascoltato dai giudici. «Ho abitato lì dal 2016 – le sue parole riferendosi al periodo vissuto in piazza Guerrazzi – e ci sono entrato con la mia ex compagna. Avevo subìto uno sfratto e, dopo aver letto un annuncio sul web attraverso il telefonino, mi sono rivolto a una certa Serenella e ho iniziato a occupare il palazzo. C’erano già 7-8 famiglie, poi sono diventate una sessantina, in tutto anche 150 persone. Io non ho pagato nulla, però ho sistemato la mia futura stanza, perché era in disuso e ridotta male. Sono del mestiere, quindi certi lavori li so fare. Poi, una volta dentro, se c’era bisogno di mettevo a posto due o tre lampadine guadagnando cinque euro ogni tanto». L’artigiano ha sempre negato di aver chiesto soldi alle persone per occupare l’immobile, spiegando di non aver mai estorto denaro: «Capitava che raccogliessi qualcosa fra gli inquilini per gli interventi di riparazione – ha sottolineato – tipo un tubo o un cavo rotto. Parliamo di 5-10 euro a testa. Noi non pagavamo le bollette, ma gli allacci li avevamo già trovati attivi. Se ho parlato di soldi con qualcuno che doveva entrare mi riferivo ai lavori che io avrei potuto realizzare, ad esempio per i muri in cartongesso. Anche per sistemare la mia stanza ho fatto qualche lavoretto. Non c’era la necessità di chiedere dei soldi per entrare al Picchetto». 


 

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