Il Tirreno

Livorno

La tragedia

Livorno, morto sotto il ponte: la bidonville a Stagno circondata dai fiori accanto allo Scolmatore

di Martina Trivigno

	I fiori colorati davanti al luogo dell’incendio (foto Franco Silvi)
I fiori colorati davanti al luogo dell’incendio (foto Franco Silvi)

A poca distanza dal Mc Donald’s la baracca della morte. Il racconto: «Abbiamo l’elettricità, ma non l’acqua corrente»

05 settembre 2024
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LIVORNO. A pochi passi c’è la ferrovia, sopra le loro teste il cavalcavia della Fi-Pi-Li. Per chi vive lì, il rumore del treno e delle auto è quasi conciliante. Soprattutto di notte, quando cala il buio e il silenzio si fa opprimente. Loro sono gli “invisibili”, così vicini alla civiltà eppure esclusi, guardati con diffidenza perché senza una fissa dimora. Eppure un tetto se lo sono preso (anche se abusivamente), ai margini di via Livorno dove le macchine sfrecciano verso l’Aurelia, a poca distanza dal Mc Donald’s.

A Stagno, tutti sanno di quelle bidonville, baracche tirate su da chi una casa non ce l’ha e forse neppure ce l’avrà mai. Catalin Constantin Mocanu, 55 anni compiuti proprio ieri, morto inghiottito dalle fiamme, viveva in una di quelle capanne di fortuna a cui i loro abitanti, però, hanno voluto dare una dignità con fiori di plastica (e non) colorati che stridono con l’ambiente circostante. Percorrendo via Livorno, c’è un piccolo spiazzo con una sbarra, poi un vialetto nel mezzo della vegetazione: un tappeto scuro attira l’attenzione. Una lingua di stoffa oltrepassa le rotaie come a voler accompagnare – dare il benvenuto quasi – a chi imbocca quel piccolo sentiero fatto di sassi e ghiaia nel mezzo della vegetazione, all’ombra del cavalcavia. Ed ecco il recinto che delimita quell’agglomerato di baracche, sempre più riconoscibili, un passo dopo l’altro.

Chi apre è cordiale ma dice subito di voler mantenere l’anonimato perché – sottolinea – «non voglio che i miei conoscenti sappiano che vivo sotto un ponte». No, non è una vita semplice. Anzi. Lei, una donna quasi settantenne di origine polacca, ci è arrivata nel 2007 insieme al marito e alla figlia. Sperava – racconta – che fosse soltanto una sistemazione provvisoria, in attesa di trovarne una migliore. Che però non è mai arrivata. E allora – prosegue il racconto – non è rimasto altro da fare se non sistemarsi lì, al meglio delle possibilità.

Fuori dalla baracca, la donna ha sistemato un tavolo con sopra un’immagine sacra e due sedie. «Prego, si accomodi», dice. Sono già trascorse diverse ore da quando il rogo è stato domato, ma l’odore di bruciato è ancora pungente, insopportabile quasi, soprattutto quando il vento smuove la cenere che copre un’ampia porzione di terreno. Restano – a dimostrazione di come prima lì ci fosse una baracca – alcune fioriere scampate all’incendio. «Ognuno qui si arrangia come può», racconta la donna che apre le porte di “casa”, davanti alla quale è stato steso un tappeto di erba sintetica verde brillante. «Siamo fortunati perché abbiamo la corrente elettrica – precisa la donna, sorridendo – e la bombola del gas che consente di cucinare sul fornello».

L’acqua corrente, invece, è un lusso su cui non possono contare. «Ci organizziamo con queste grandi bottiglie di plastica da cinque litri – prosegue la donna, mostrando un carrellino con le ruote che serve a trasportarle – . Quando abbiamo troppi vestiti da lavare li portiamo in lavanderia, quella a gettoni, o mia figlia, che lavora come badante, chiede la cortesia di poterli lavare nella casa della signora che accudisce». La parte più complicata, però, arriva quando devono fare il bagno. «All’aperto, ovviamente. Ci siamo organizzati con questa grande tinozza di plastica, sistemata qui sul retro – aggiunge la donna – . Con questo piccolo contenitore ci buttiamo l’acqua addosso, utilizzando sempre le bottiglie riempite in precedenza. È difficile, ma cerchiamo di mantenere la nostra dignità anche in questa situazione così precaria».

E in effetti gli spazi sono organizzati come un vero e proprio giardino: ci sono i fili per stendere il bucato, un ombrellone per ripararsi dal sole, il tavolino e le sedie per un momento di relax. Una decina di gatti si aggira poi nel cortile. «Questi li accudisce Nadya, la compagna di Catalin – racconta ancora la donna – . Sono randagi, ma lei li ha adottati. Quando li chiama per dare loro i croccantini, arrivano tutti insieme. Sono dolcissimi, un paio di questi mici dormiva sempre con Catalin, probabilmente anche la notte della tragedia». Quel che resta, ora, è la disperazione di Nadya che ha perso il compagno e la desolazione di un luogo in parte mangiato dal fuoco. «Queste baracche le aveva costruite il fratello di Catalin, anche lui è morto un anno fa – conclude la donna – . Anche se la convivenza tra vicini di casa non è mai facile, abbiamo condiviso molti anni qui, nello stesso terreno. Chiediamo che qualcuno di buona volontà ci aiuti a pulire, a bonificare quest’area».

Quando chiediamo alla donna perché non si sia mai rivolta al Comune, lei scuote la testa: «Siamo invisibili. Spero di poter tornare in Polonia». Chiude il cancello, salutando con una mano. Poi si volta, lo sguardo rivolto lì dove fino al giorno prima viveva Catalin. Questa volta il buio farà ancora più paura.




 

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