Empoli, perseguitata da quasi 10 anni. Il racconto choc: «O sei mia o di nessuno»
Sulle spalle dell’uomo una condanna definitiva e da poco un rinvio a giudizio con l’accusa di atti persecutori
EMPOLI. Quasi dieci anni di atti persecutori, una sequela di denunce, una prima sentenza di condanna diventata definitiva. E un secondo rinvio a giudizio, disposto a metà aprile dal tribunale di Firenze. Eppure la vittima, che chiamiamo Viola con un nome di fantasia per non renderla riconoscibile, è ancora costretta a vivere nella paura. Dietro la forza di denunciare di Viola, la sua determinazione nel chiedere aiuto e la tenacia nel respingere le richieste di un 80enne, Eugenio Tinghi, imprenditore di Empoli, originario di un centro del comprensorio del Cuoio, c’è un calvario che sembra non finire mai.
Quella di Viola è la storia di una donna che vive braccata, costretta più volte a cambiare lavoro e a casa (traslocando di notte), a isolarsi sempre di più per nascondersi, a cambiare le amicizie ed evitare di parlare con conoscenze in comune, sperando che l’uomo non riesca a trovarla. Invece ogni volta lui, come emerge dalle querele, torna ancora a farsi vivo. Una presenza minacciosa, secondo le accuse, una tortura per l’anima. «Dopo le minacce di morte, i tentativi di investirmi con l’auto, i pedinamenti sotto casa e al lavoro – racconta angosciata la donna – non sono ancora libera di uscire senza avere paura. L’uomo che mi perseguita è libero di continuare a farlo, anche dopo una condanna e nuove accuse che lo porteranno di nuovo a un processo. Non posso dimenticare le sue minacce: “Ti ammazzo poi mi suicido” e ancora “Sei una straniera, nessuno ti crederà se mi denunci” e “O mia o di nessuno”. Oppure “Le donne mi hanno sempre cercato, non accetto che tu mi rifiuti” e “a me non fa nulla nessuno...” , “Ti distruggo”».
Sì, proprio così. Il 15 aprile l’imprenditore è stato di nuovo rinviato a giudizio a Firenze per il reato di stalking. Ma, fatto che complica ancora di più la vicenda, la prima udienza del processo è stata fissata a marzo del prossimo anno. Quale tutela ci sarà per la parte offesa in questi lunghi mesi?
Nel frattempo nonostante le richieste alla procura, presentate già due anni fa dall’avvocata Amelia Vetrone per ottenere il divieto di avvicinamento o il controllo con il braccialetto elettronico sono cadute nel vuoto. Eppure quello che emerge dalle querele e dal racconto choc della parte offesa è il contesto di un’ossessione che si protrae nel corso del tempo.
«Non voglio essere un’altra donna da piangere, un altro numero da aggiungere nel lungo elenco dei femminicidi – racconta Viola che ha deciso di rendere pubblica la storia – non è vita se non puoi uscire di casa senza sentirti osservata o con la paura di essere aggredita. Vorrei solo giustizia, non cerco soldi, vorrei solo che uscisse dalla mia vita. Sono stanca di dover essere sempre prudente».
Il ricordo di quanto avvenuto a novembre 2016 è ancora davanti ai suoi occhi. Il suono della pistola che cade in terra. Il metallo della Smith&Wesson sul pavimento del locale. Il grido nel telefono, alla polizia, dal terrazzino: «È qui, venite. Mi ammazza». Poi l’arresto dell’uomo. Ci sono voluti 27 mesi per ottenere una sentenza di primo grado. Doveva essere – così tutti speravano un capitolo chiuso. E pensare che ci sono leggi e percorsi di tutela per le vittime della violenza (anche Viola è stata inserita in questo percorso).
«Pensavo che le denunce sarebbero servite a fermarlo. Ma non è stato così». Anche se l’imprenditore è finito sotto inchiesta e poi condannato per il reato di atti persecutori con una sentenza diventata definitiva l’anno scorso, non è stato trovato un modo per evitare il ripetersi dei comportamenti che hanno costretto la vittima a cambiare abitudini di vita dopo averle cagionato un perdurante stato di angoscia, come riporta la sentenza. Tanto che la donna ha continuato a denunciarlo. «Ma ora non ce la faccio più, sono troppi gli episodi drammatici, non riesco a intravedere una luce di speranza, chiedo solo un po’di tranquillità».
La parte offesa il giorno dello scorso Natale, stanca di subire, è andata in questura ha presentato una nuova querela in cui ricostruisce la storia dall’inizio, indicando testimoni e circostanze. L’uomo sarebbe arrivato addirittura ad aspettarla fuori dall’ospedale, dove lei era andata per una visita.
Tra una lentezza e l’altra si è arrivati ad un nuovo processo. «Per chiudere l’udienza preliminare ci sono volute quattro udienze» si sfoga la donna. Da quanto si apprende, l’uomo ha tentato la strada del patteggiamento che il giudice non ha concesso poiché non voleva fare il percorso per uomini violenti. In vista dell’udienza preliminare, ha anche fatto svolgere indagini difensive per dimostrare che non è pericoloso, che a sua volta si sente colpito dalle querele. E quando ha visto il rinvio a giudizio ha sostenuto che il percorso per arrivare a casa della 47enne e lo stesso che lui fa per andare dalla sorella. Tanto che l’avvocato della donna ha risposto con una memoria e foto per smentire la sua narrazione.