L’aggiornamento
Covid, a 5 anni dalla cena focolaio con 49 persone: «Ho perso amici e azienda, ma ci hanno dato degli untori»
La ditta non è l’unica cosa che ha perso per colpa del virus: quella rimpatriata in Lucchesia è diventato un caso di studio
LUCCA. Oggi Roberto Lenci, 65 anni, aiuta una sessantina di imprese che lavorano nel settore calzaturiero attraverso la rete Tuscany4Shoes. «Fino al 2020 – racconta – anch’io avevo un’azienda, ma è stata spazzata via dal Covid». La ditta, purtroppo, non è l’unica cosa che ha perso per via del virus. «Quattro amici – ricorda – non ce l’hanno fatta». Uno di loro, Giovanni Petroni, era con Roberto tra partecipanti (in tutto quarantanove) alla cena focolaio di Segromigno, in Lucchesia, avvenuta il 21 febbraio di cinque anni fa e diventata un caso di studio.
Cosa ricorda di quella sera?
«Tutto. Era una rimpatriata tra amici di paese nati tra il 1950 e il 1970 e organizzata al ristorante “La Pollastra”. Prima facevamo cene di questo tipo almeno tre volte all’anno all’insegna della goliardia».
Quella cena è passata alla storia come quella focolaio in Toscana...
«Purtroppo sì. Ma fino ad allora del Covid non se ne sapeva nulla. Non c’era alcun sentore. Solo il giorno seguente venne fuori il paziente zero a Codogno. Pensi che poco prima di trovarci il padre di tre ragazzi che dovevano essere presenti ebbe un infarto. Lo avessimo saputo prima avremmo annullato tutto. Invece lo abbiamo saputo quando eravamo già seduti a tavola».
Su 49 partecipanti 26 risulteranno positivi: di questi 24 con sintomi. Anche una vittima.
«Per Giovanni e gli altri tre amici ricoverati in terapia intensiva è stato un dramma. Per gli altri contagiati, per fortuna, si è risolto tutto con una febbre, me compreso. Ma in paese siamo passati come degli untori, persone superficiali, ci siamo dovuti difendere. Avessimo saputo a quale rischio andavamo incontro mica avremmo organizzato quella cena».
Lei era tra quelli che era stato a Milano nei giorni precedenti?
«No. Dei partecipanti un 30% era stato in fiera, un altro 30% aveva avuto contatti con chi era stato in fiera e un 10% era tornato da un viaggio di lavoro. Ma tutti quella sera stavano bene, nessuno aveva sintomi. Lo ricordo bene».
Non a caso quella cena è diventato un caso di studio...
«È stato il dottor Franco Antonio Salvoni ad occuparsene in collaborazione con l’amministrazione. Ci hanno chiesto una cartina dettagliata di come eravamo sistemati a tavola, hanno fatto dei test e ci hanno intervistato per capire i sintomi che avevamo avuto».
A quale conclusione è arrivato lo studio?
«Che il contagio non ha avuto una regola, un disegno, ma è avvenuto a macchia di leopardo. I quattro che hanno avuto le conseguenze più gravi, ad esempio, non erano seduti vicini. E anche malattia e sintomi sono stati diversi per tutti. Purtroppo eravamo all’inizio e chi è stato ricoverato ha rischiato di più. Tutti venivano intubati con l’ossigeno e quella terapia a qualcuno ha fatto peggio».
Avete percepito il pericolo?
«Il pericolo no, mai, perché molti se la sono cavata con un giorno di febbre. Ma eravamo in ansia per gli amici che erano ricoverati».
È rimasto segnato da questa esperienza. Ha un approccio diverso da prima rispetto alla malattia?
«Segnato no. Durante la pandemia ci siamo comportati tutti bene come gli altri. Unica cosa che ricordo bene e che ci ha dato fastidio, ripeto, è stato l’atteggiamento di chi ci ha considerato degli untori».
Per colpa del Covid ha perso un amico e il lavoro. Cosa dice ai negazionisti?
«Che non sono tanto intelligenti. Certo, forse la pandemia poteva essere gestita meglio, sia a livello sanitario che politico, ma dire che il Covid non è esistito, o che è stata una buffonata, è troppo. Io ho perso, oltre a Giovanni, altri tre amici cresciuti con me e il lavoro perché non potendo più produrre nella mia azienda ho avuto grosse difficoltà finanziarie. E riprendermi non è stata una passeggiata».
Sono passati cinque anni cosa è rimasto? Vi siete più risentiti?
«Abbiamo un gruppo WhatsApp, “Noi piaggioresi” e ogni anno che ricorre la morte di Giovanni lo ricordiamo. A questo gruppo è legata anche un cosa allegra che è successa».
Ce la vuole raccontare?
«Quando cominciarono le indagini sulla cena, il medico voleva la lista degli inviati. Il problema è che in quella chat siamo tutti identificati col soprannome. Quindi c’era “Nero”, “Cico”, “Il gatto”, “Il sodo”, “La pollastra”, “Talini”. Mi chiamò il sindaco e insieme decodificammo la lista con nome, cognome e telefono».