Il Tirreno

L’intervista

Gene Gnocchi compie 70 anni: gli inizi da avvocato, i genitori e il rimpianto. E c’è un comico toscano per lui sottovalutato

di Luca Tronchetti

	Gene Gnocchi
Gene Gnocchi

Gene Gnocchi si racconta: «Come avvocato avevo soltanto tre clienti e quando uno di loro morì, capii che quella non era la mia strada. L’incarico più importante? L’ho ricevuto in Toscana»

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Ridendo e scherzando, con quella vena ironico-sarcastica e attraverso le sue gag paradossali e dissacratorie, da 40 anni suscita una simpatia incondizionata nel pubblico televisivo con i suoi interventi semiseri e le sue freddure quotidiane sulla carta stampata che lo hanno reso un campione di comicità surreale. Oggi Eugenio Ghiozzi in arte Gene Gnocchi festeggia i suoi primi 70 anni e lo fa al teatro Dalmine (Bergamo) con lo spettacolo “Una crepa nel crepuscolo”, rendiconto della sua attività artistica con una rivisitazione immaginaria di personaggi che variano da Alberto Angela al generale Vannacci, da Gianni Morandi al mitico Muciaccia, conduttore del programma per bambini “Art Attack”.

Si offende di più se le dicono che non fa ridere, che non sa cantare, che non è capace a presentare o che non sa giocare a pallone?

«Se mi accusano di non essere un bravo calciatore mi arrabbio per davvero. Ero un regista fortissimo e m’ispiravo a Rivera, che poi ho conosciuto giocandoci insieme a tennis. Nel 1972 ho fatto la Primavera con l’Alessandria allenata da Pippo Marchioro e ho giocato una decina di stagioni tra D e Promozione con le maglie di Guastalla, Fidenza, Castiglione, Fiorenzuola, Viadanese, Busseto e Vigolsone vincendo diversi campionati dilettantistici. Alla fine del 2006 durante la trasmissione “Quelli che il calcio” lanciai una sfida al mondo del pallone chiedendo l’ingaggio con gettone di presenza in qualsiasi squadra di serie A e nel marzo 2007 lo ottenni dal Parma. Venni inserito in rosa con contratto bimestrale di 3mila euro, la maglia numero 52 (come la mia età in quell’anno) e lo pseudonimo di “Gnoccao”. Avevo trovato anche gli sponsor: una ditta produttrice di pasta per dentiere ed un'altra specializzata in pancere. Purtroppo il sogno del debutto in A svanì perché i ducali si salvarono all’ultima giornata e quel grand’uomo di mister Ranieri non poté buttarmi in campo. Ultimamente ci ho riprovato tentando di convincere Galliani a mettermi nella rosa del Monza, ma non c’è stato nulla da fare. Lancio un appello: se qualcuno ha bisogno di un regista vecchio stampo io sono svincolato».

Ci racconti la sua infanzia a Fidenza e dintorni: quando ha capito che non era tagliato per fare l’avvocato?

«Avevo solo tre clienti e quando uno di loro è morto ho capito che avevo sbagliato strada. In quel periodo ero un aspirante rocker e facevo parte del gruppo “I Desmodromici”. Siccome non sapevo usare gli strumenti musicali mi cimentai come front man e voce solista. Il mio cavallo di battaglia era “Purple rain”, quel brano l’ho scritto io e Prince me lo ha copiato! Ci esibivamo nei locali di provincia tra Parma e Reggio Emilia, ma gli spettatori non gradivano molto il mio talento canoro e in dialetto stretto sostenevano che facevo ridere. Così ho voluto seguire i consigli del pubblico e ho scelto la carriera di attore comico. E mi è andata meglio».

Da cosa deriva il suo cognome d’arte?

«Mia mamma Adriana è stata il cuore il celebre ristorante Antica Trattoria al Duomo, locale nel centro storico di Fidenza. Nel 1967 lei, i miei fratelli Alberto, Federico, Elena ed Andrea (l’altro fratello Carlo è un conduttore radiofonico e pittore) fondarono un'azienda alimentare che ancora oggi produce pasta fresca: dal tortello d’erbetta al cappelletto in brodo sino allo gnocco fritto. E poiché siamo una famiglia che si contraddistingue per l’ironia, la trasformazione da Ghiozzi a Gnocchi, il nome imposto all’impresa familiare, è stata naturale. Sono sincero: ai miei genitori devo tutto. Mio babbo Ercole Ghiozzi è stato un sindacalista della Cgil, segretario della Camera del Lavoro di Parma, che nel 1960 votò contro la linea togliattiana di sostegno all’Urss. Era un personaggio unico: pur avendo sei figli si era comprato un’Alfa Romeo spider Duetto bianca dove entravano sì e no quattro persone. Per portarci in vacanza partiva dal più piccolo e poi faceva su e giù per prendere gli altri. Il primo arrivava ad agosto, io a novembre. Mia mamma che, prima di entrare nel mondo della ristorazione, faceva la parrucchiera, ogni volta che a scuola prendevo un brutto voto mi faceva il ciuffo alla Elvis che mi stava malissimo e provocava l’ilarità dei compagni e soprattutto delle ragazze. Ed era molto peggio che finire dietro alla lavagna».

Qual è il suo rapporto con la Toscana e con la comicità di questa terra?

«Da questa splendida regione ho ricevuto l’incarico più prestigioso ricoperto in vita mia: presidente onorario dell’Accademia della Bugia a Le Piastre nella provincia di Pistoia. Come posso, in estate vado sempre a quella manifestazione ed essere riconosciuto “Bugiardo ad honorem” mi fa stare meglio. D’altronde la Toscana si rispecchia in Pinocchio che rappresenta il mondo in un modo diverso da quello reale. Una trasposizione palesemente esagerata e inverosimile di ciò che si vorrebbe. Una terra che ha dato al mondo dello spettacolo tanti comici di valore a partire da Roberto Benigni. Se devo dirne uno sottovalutato, cito Alessandro Paci con cui ho lavorato in uno spettacolo a Venezia firmato da Gaber. Anche lui racconta un mondo che all’inizio appare dimesso, quotidiano, privo di ogni interesse, vagamente autobiografico e progressivamente ne approfondisce le miserie e le sciocchezze trasformando la piccola stupidità di ogni giorno in un monumento all’assurdo. E Leonardo Pieraccioni, con cui ci scambiamo idee e mi segnala spunti dettati dalla cronaca per i miei spettacoli».

C’è un comico o un artista a cui si è ispirato nella sua carriera?

«Mi piaceva il primo Villaggio, Cochi e Renato e soprattutto Felice Andreasi, dimenticato dai più, che dietro quel volto serissimo faceva un uso filosofico dell’ironia. Conservo gelosamente i Dvd dei suoi meravigliosi monologhi che mi duplicò il regista, tifoso viola, Paolo Beldì. Poi ho avuto la fortuna di conoscere un caposaldo dell’humor come Raimondo Vianello con cui ho lavorato nei primi anni di televisione al “Gioco dei 9”. Basta che alzasse un sopracciglio per provocare un’istintiva risata. Ho cercato di copiare la sua flemma e il suo perfido umorismo british capace di incenerire velleità politiche, demenze letterarie e debolezze culturali. Non so se ci sono riuscito perché lui resta inarrivabile».

Qual è oggi il numero 10 del mondo dello spettacolo?

«Non ho dubbi: Fiorello. Sa fare di tutto e in modo intelligente. Ha la classe di Platini, l’estro di Maradona, il controllo di palla di Messi. Personalmente mi ritengo un Savicevic, di cui sono stato amico e primo tifoso. Un genio incompreso. Più di una volta ho telefonato a Berlusconi lamentandomi del suo mancato impiego da parte di Capello».

Quali sono i programmi tv a cui le sarebbe piaciuto partecipare?

«Di sicuro “Il caso Scafroglia” con Corrado Guzzanti, che reputo il migliore autore satirico italiano, che offriva in ogni puntata spunti di riflessione per approfondire temi di attualità, politica e costume, svelando le contraddizioni e la confusione continua della tv italiana e la televendita Tomasi Case nei Lidi Ferraresi con il promotore che pubblicizza l’abitazione sul mare con la sagra dell’anguilla. Rimpianti? Mi sarebbe piaciuto fare più cinema e meno tv. Ma sul grande schermo i produttori mi offrivano solo commedie all’italiana per riempire le sale nel periodo natalizio mentre io cercavo film d’autore magari brillanti ma meno commerciali. Non è mai troppo tardi: magari qualche regista si ricorda di me». 


 

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