Andrea Diana e quel passo indietro in panchina per volare oltre il canestro: «Vi racconto il miracolo di Trapani»
Il coach livornese ha portato gli Shark in A e poi ha accettato di fare il vice a Repesa: «Quando mi è stato comunicato volevo andar via. Poi ho cambiato idea. Spero tanto che la Libertas si salvi. La PL? Ha capito quando serve vincere»
Trapani. Un passo indietro per farne tre avanti. Sacrificando ego e ambizione personale per abbracciare un progetto folle e affascinante: ribaltare i punti cardinali del basket italiano, rivoluzionando la geografia della palla a spicchi e trascinando la periferia più depressa del Paese, la Sicilia, in cima al mondo, ben oltre i tre metri e cinque centimetri di un canestro. Andrea Diana, 50 anni il prossimo 16 febbraio, livornese di scoglio, lo scorso 9 giugno porta Trapani in A1 da capo allenatore. Due settimane più tardi, il vulcanico presidente degli Shark Valerio Antonini, lo chiama al telefono: «Ho deciso di affidare la squadra a un altro coach (Jasmin Repesa ndr) . Però – aggiunge – mi farebbe piacere tu restassi come vice». Da essere Batman a indossare i panni di Robin in uno squillo. L’ex allenatore del Don Bosco avrebbe voglia di mandare tutti a quel paese. Invece si prende qualche giorno, pensa. E alla fine decide di restare. Sette mesi più tardi Trapani è prima in classifica, in coabitazione con Brescia, davanti a corazzate come Milano e Bologna.
Coach, soffre di vertigini?
«No, assolutamente. Certo, non ci aspettavamo di fare così bene, di essere primi. Però sapevamo di avere un potenziale da prime quattro».
L’ultima volta che Trapani era stata in Serie A ce la portò un altro Livorno “Cacco” Benvenuti...
«Sono passati oltre trent’anni, nessuno qui ha dimenticato, ma è ovvio che essendo trascorso così tanto tempo è come se fosse la prima volta, ci sono entusiasmo ed emozione. È tutto bellissimo».
Nell’ultima partita avete battuto Pistoia di oltre 40 punti, il pubblico di Trapani è il più numeroso della serie A. Andate alla final eight di Coppa Italia da favoriti. Qual è il segreto?
«Prima di tutto c’è la visione del presidente Antonini. Quando si è presentato a Trapani nessuno ci credeva, invece ha investito soldi e mantenuto le promesse trasmettendo energia a tutti: città, tifosi, squadra. Secondo, la scelta di affidare la conduzione tecnica a Repesa per dare alla squadra un appeal internazionale è stata vincente. Poi c’è anche un po’ di fortuna perché tra staff e giocatori ci siamo trovati bene riuscendo a superare anche i momenti complicati che in una stagione ci sono. La Coppa? Sarebbe un sogno vincerla, ma è una competizione dove tutto può accadere».
Torniamo alla scelta di restare da vice, quanto è stata dolorosa?
«Ripeto, inizialmente ero deluso, volevo andar via. Poi nei giorni seguenti è subentrata la parte razionale. Il presidente mi ha richiamato, mi ha spiegato e ho capito che fare una stagione da vice a Repesa poteva essere un’opportunità di crescita dopo quella con Scariolo a Bologna. Anche perché altrimenti rischiavo di restare fermo in attesa di una chiamata».
Quindi è una scelta che rifarebbe?
«Certo. Il basket moderno è talmente ad alta intensità, con un ritmo altissimo che serve uno staff di alto livello. Fare il vice ha i suoi lati positivi: puoi pensare alla parte tecnica in modo totalizzante».
Invece di fare il capo allenatore cosa le manca?
«Mi manca la pressione, la responsabilità dell’ultima decisione. Quando ero fermo dopo Bologna avrei accettato solo un’offerta da capo allenatore. Trapani era una bella sfida, mi sono divertito, mi è piaciuto. Tornare a fare il vice è vero che fai un passo indietro a livello di responsabilità e visibilità, ma lavori di più sulla parte tecnica. Il capo ha mille beghe: stampa, medici, dirigente. Il vice si concentra sul gioco».
Dicevamo del presidente Antonini. Ma sono leggende metropolitane o ha davvero cercato di portare Teodosic e Gallinari a Trapani?
«Non lo so se li ha chiamati, ma avendo firmato Tibor Pleiss, che ha vinto due volte l’Eurolega, non mi stupirei».
In testa con voi c’è Brescia dove ha allenato per otto anni. Nonostante questo l’allenatore della Leonessa Beppe Poeta l’altro giorno ospite di “Dj chiama Italia” ha ripetuto che le favorite sono Milano e Bologna. È d’accordo?
«Sì, a livello di roster e organizzazione sono quelle più attrezzate. Anche perché quando arriveranno i playoff l’Eurolega sarà finita e loro sono più abituate a giocare ogni due-tre giorni».
Facciamo in gioco: cosa le ha insegnato Repesa?
«A parte qualche parolaccia in croato? (ride). Direi l’empatia naturale con i giocatori che gli permette di trasmettere la sua idea di pallacanestro e la sua passione. Non è un vincente per caso».
E Scariolo, con cui ha lavorato a Bologna?
«Per me è un grande maestro. Vi racconto questo episodio per dare l’idea del professionista. Lui impegnato con la Spagna agli Europei e io a Bologna con la squadra. Loro vincono i quarti con la Lituania dopo un supplementare, una partita complicata. Noi ogni giorno gli mandavamo il video completo degli allenamenti. Bene, la partita finisce alle 23. Lui torna in hotel guarda la registrazione dell’allenamento e alle due invia le osservazioni sull’allenamento allo staff».
C’è chi sceglie di portare la famiglia sempre con sé e chi il contrario. Voi che scelta avete fatto?
«Con mia moglie Valentina per dare stabilità a Federico, dieci anni, e Cecilia, sei, abbiamo deciso che loro sarebbero rimasti a Ferrara. Non averli con me è l’unico lato negativo di questa esperienza. Ma cerchiamo di arrangiarci. Per le vacanze di Natale siamo stati qui insieme. E appena posso vado io».
Lei, Ramagli, De Raffaele, Bechi, Dell’Agnello, ora anche Bulleri che all’esordio con Sassari ha battuto Bologna. Livorno capitale italiana degli allenatori?
«Un po’ sì. Ma è lo spirito livornese che unito alla tradizione e alla passione per il basket ha creato questa tendenza. Poi c’è anche un altro aspetto. A Livorno a differenza di altre realtà, lo sport è un’opportunità, perché a livello occupazionale non c’è moltissimo. Quindi lo sport diventa un modo per garantirsi un futuro. Aggiungeteci che il livornese è competitivo anche quando gioca a tappini e il gioco è fatto»
Restiamo a Livorno, tra poco uscirà la docuserie “Livorno a Due” sulla storia dei derby.
«Sono curioso di vederla. Trasmetterà i valori della nostra città. Un amore per il basket che è contagioso. Ed è arrivato fino a Trapani».
La Libertas riuscirà a salvarsi?
«Spero proprio di sì. La prima stagione in serie A non è semplice, soprattutto per una società nuova, cresciuta bene ma in fretta. È un campionato difficile con venti squadre e un livello alto».
E la Pielle può salire in A2?
«Speriamo, con Hazners hanno un giocatore che mancava dall’inizio. L’importante è arrivare seconda o terzo per evitare Roseto. Dopo lo scorso anno, Avellino insegna, hanno capito che l’importante non è arrivare primi, ma arrivare pronti quando conta».
Cosa le manca più di Livorno?
«Una girata sul mare. Anche qui è bello, ma Terrazza, baracchine e Antignano sono un’altra cosa. Poi mi mancano gli amici di una vita, mio babbo e mio fratello, i nipoti. E quella passione che si respira a Livorno».
Se adesso vive di pallacanestro, oltre a se stesso, a chi deve dire grazie?
«Prima di tutto alla mia famiglia perché non mi hanno mai messo i bastoni tra le ruote quando ho deciso di intraprendere questa carriera. E poi a mia moglie: è stata ed è la mia forza, mi appoggia, mi capisce, è al mio fianco nei momenti belli e in quelli brutti».