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Tosto, il destino nel cognome: il "cavallo pazzo" da 50 anni con la testa nel pallone

Tosto, il destino nel cognome: il "cavallo pazzo" da 50 anni con la testa nel pallone

L’amore per la famiglia, il riscatto sociale, il debutto con la Fiorentina: «Baggio è stato il Maradona italiano, Couto mi sputava sui calci d’angolo»

17 giugno 2024
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LUCCA. Dalle acciottolate stradine in discesa del profondo Sud trasformate con la fantasia in campi di calcio ai meravigliosi manti erbosi dei templi del football di casa nostra come San Siro e l’Olimpico conservando inalterata un’educazione, una disciplina, un rigore, una disponibilità e un’etica del lavoro inculcate dai genitori sin da bambino quando sognava di diventare un giocatore di serie A.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando il piccolo Vittorio Tosto da Cariati, comune di 7500 anime, osservava la cinta muraria affacciata sul Mar Ionico, l’unica integra di tutta la Calabria, e si fermava davanti alla tv per ammirare le gesta dei grandi campioni come Maradona e Van Basten. L’ex “Cavallo Pazzo” del calcio italiano – 535 presenze da professionista 166 in A, 314 in B, 16 in C1, 35 coppa Italia, tre in nazionale under 21 condite da 30 reti _ che oggi si mantiene in forma correndo sul polmone verde delle Mura diventata la sua città d’adozione, venerdì ha festeggiato i suoi primi 50 anni con la moglie Franca e i figli Stefano (dall’11 agosto si trasferirà in Arabia Saudita come responsabile tecnico dell’Academy Juve) e Lorenzo (classe 2006, talento dell’Empoli e nazionale under 18).

Dal calcio di ieri a quello di oggi passando dagli Europei che segue con interesse visto che da un decennio è responsabile della Green Soccer, società che gestisce una trentina di giocatori di B, C e D e che è stato l’ideatore del Centro “Vignini e Fiondella” sotto la curva Est. Insomma, uno sportivo all’avanguardia: «La rivelazione degli Europei sarà Riccardo Calafiori fresco convocato in azzurro da Spalletti. L’avevo visto e segnalato quando giocava a Basilea. L’Italia può fare bene in Germania, ma per migliorare i nostri vivai e ricreare i campioni servono moderne strutture e nuovi metodi di lavoro».

Tosto nomen omen

Il destino nel... cognome. Perchè Tosto sin da piccolo è sempre stato un ragazzo deciso, energico, determinato: «Mia mamma mi aveva predetto un futuro nel pallone: sferravo certi calci nel suo pancione prima di venire al mondo». Non è facile emergere se nasci negli anni Settanta in una regione dove le cosche malavitose si spartiscono i traffici illeciti: pizzo, riciclaggio, traffico di stupefacenti. A tenerlo lontano dal degrado è stata la famiglia: il babbo Stefano, titolare di un piccolo supermercato con annessa macelleria, e l’adorata mamma Maria che ha tirato su sei figli (quattro maschi e due femmine) autentico angelo custode di Vittorio: «Ricordo il mio primo regalo: un pallone Tango (quello dei mondiali del 1978 in Argentina) dono di mio padre di rientro da un periodo di riposo a Fiuggi.

Avevo quattro anni e con quella sfera giocavo in cortile, nei campetti di periferia, nelle strade del quartiere vicino al mare, piene di sassi e di buche e spesso in discesa con porte improvvisate. Era bellissimo. Ma al mattino dopo quei luoghi dell’anima si riempivano di sporcizia e di siringhe. La maledetta droga ha rovinato tante famiglie e ha sconfitto tanti giovani». Ma per Tosto c’era soltanto il lavoro nel market paterno e il pallone: «Pulivo gli animali, portavo al pascolo le pecore. Poi, a 12 anni, la mia prima squadra: la Cariatese. Il campo era a 300 metri da casa e ho fatto tutta la trafila sino ad arrivare al debutto non ancora sedicenne in Interregionale, l’attuale serie D».

Firenze e la forza della vita

La svolta arriva improvvisa, durante il torneo delle Regioni a Cesenatico: «Tra gli osservatori c’era un Omone, scout della Fiorentina. Mi seguiva da tempo e fece di tutto per portarmi in Toscana. Era Nelso Ricci, uno dei più importanti direttori sportivi di C . Quando me lo comunicarono non volevo crederci. Due stagioni fantastiche nella Primaverai». Ma a un tratto il destino sembra voltargli le spalle: «Mia mamma si ammala di tumore. Aveva 39 anni. Per due anni è rimasta ricoverata all’ospedale S. Orsola di Bologna: una lotta senza speranza. Quei 24 mesi sono stati uno stimolo e un tormento. Volevo affermarmi per darle una soddisfazione. Per me la famiglia è sempre stata alla base di tutto. Con il mio primo vero stipendio alla Fiorentina ho dato una mano a mio padre a ristrutturare il supermercato e ho pensato ai miei fratelli. La macchina che volevo l’ho acquistata tre-quattro anni dopo».

Ranieri, Delio Rossi e Simoni

Claudio Ranieri è stato il tecnico del destino: «Il giorno in cui ha annunciato il suo ritiro l’ho chiamato e siamo rimasti quasi mezz’ora al telefono. Mi ha fatto debuttare con la maglia viola (serie B, 29 agosto 1993, Palermo-Fiorentina 0-3) e mentre stavo per entrare in campo al posto di Batistuta mi prese sotto braccio dicendomi “É il tuo momento: adesso sei uno di loro, se non sei meglio. Va dentro e gioca come sai”. Già all’epoca si intuiva lo spessore umano oltre alle capacità tecniche». Delio Rossi è stato l’allenatore che lo ha fatto crescere e affermare: «Con lui ho vinto due campionati con la Salernitana (1993-94 in C, 1997-98 in B), ho imparato a giocare a zona e soprattutto ho scoperto una città e dei tifosi che ancora oggi, un quarto di secolo dopo, mi accolgono come un figlio e mi hanno dedicato un fans club che contava su 400 iscritti. Quella promozione in serie A arrivata 55 anni dopo la prima è ricordata a Salerno con un affetto incredibile».

Gigi Simoni è il maestro legato alla maturità agonistica: «Un’enciclopedia del calcio. Ti parlava con un’umanità perduta e sapeva di pallone come pochi. Con lui potevi confrontarti discutendo di pittura, letteratura, musica. L’ho avuto una sola stagione a Napoli, un anno difficile. Quei mesi mi sono bastati per affezionarmi a una persona e a un tecnico speciale capace con uno sguardo di intuire situazioni in campo e fuori».

Le occasioni perdute

Nessun rimpianto per una carriera ventennale chiusa dopo quattro stagioni a Empoli nella sua Lucca, la città in cui ha conosciuto la moglie Franca che lo ha sposato perché «assomigliavo più a uno studente di giurisprudenza che a un calciatore: Ancora oggi appena posso mi rilasso leggendo un libro. Ho fatto parte della nazionale under 21, ma in quella maggiore ero chiuso da mostri sacri come Paolo Maldini. Mi sono sempre ritenuto un gregario dal rendimento costante (un anno è stato il miglior terzino al Fantacalcio) che portava sempre a casa la pagnotta. Se avessi militato in formazioni in lotta per lo scudetto avrei avuto qualche chance in più. Sono andato a un passo dalla Juventus di Lippi che voleva prendermi come rincalzo di Zambrotta, ma alla fine scelsero Moretti dalla Fiorentina. Pazienza. Non ho rimorsi: è stato fantastico giocare negli anni Novanta dove in Italia c’erano i più forti calciatori del mondo se penso che, solo nel mio ruolo, dovevo incrociare le armi con gente come Zanetti, Cafù, Fuser e Di Livio. Erano duelli rusticani, ma sempre all’insegna della correttezza. Tra l’altro ero un terzino che non disdegnava le conclusioni a rete. In carriera ho segnato 28 reti e una doppietta in Ascoli-Sampdoria nella stagione 2004-05».

Da Couto a Baggio

«Sono stato espulso una volta sola in Torino-Salernitana per fallo da ultimo uomo. Non sopportavo i calciatori maleducati. Ho litigato ferocemente con il portoghese Couto della Lazio che, in un’epoca senza Var, aveva il brutto vizio, che non accettavo e non sopportavo, di sputarti in faccia sui calci d’angolo. Il giocatore più forte visto da vicino? Ronaldo il Fenomeno era di un altro pianeta. Ma quello che ho ammirato di più continua a essere Roberto Baggio. Lo considero il Maradona italiano: praticamente immarcabile. Un ragazzo di un’umiltà incredibile. Ancora oggi è il primo a salutarmi e a ricordarmi di quando, io nella Primavera viola assieme a suo fratello Eddy, veniva a caricarci in auto per portarci a fare la spesa».

 

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