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basket: la ricorrenza

Sessant'anni da Sandrokan: Dell’Agnello, il livornese che stoppò i mostri Jordan e Malone

Francesco Parducci
Sessant'anni da Sandrokan: Dell’Agnello, il livornese che stoppò i mostri Jordan e Malone

Il racconto di Sandro Dell'Agnello: «Il ricordo più bello? 29 e 30 punti in finale scudetto contro Milano E quando Cesare Rubini disse: con dieci come te vincerei tutto...» 

21 ottobre 2021
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LIVORNO. Estate 1985, Bormio. Il Valtellina Circuit era in quegli anni il luogo deputato per la preparazione estiva delle migliori squadre italiane che cominciavano il precampionato con le prime amichevoli. Era anche luogo di mercato e di pubblicità e una squadra di pro americani capitò da quelle parti per un giro promosso dalla più nota marca di scarpe da basket. C'era anche quello che a quelle scarpe avrebbe legato il suo nome, probabilmente per sempre, visto che ancora oggi si chiamano così: Michael Air Jordan.

Amichevole con Caserta, a un certo punto succede che uno vola più in alto di Air e gli ricaccia il pallone in gola. Roba da non credere, se non fosse che l'autore di quello che rimane uno dei gesti atletici più eclatanti compiuti da un italiano nella storia del basket nostrano, non fosse Sandro Dell'Agnello da Livorno, quartiere Sorgenti, che tre anni prima, quando appena si era affacciato al mondo della palla a spicchi, stesso trattamento aveva riservato, in maglia Rapident, a Moses “The Mailman” Malone, altro mostro sacro del pianeta Nba.

Sandro Dell'Agnello ieri ha compito 60 anni e li porta benissimo, beato lui. «Sarà perchè faccio un lavoro che mi piace – risponde – e che mi fa stare a contatto con i giovani. Certo, qualche ruga c'è e i capelli sono sempre meno, ma di spirito mi sento assai più giovane della mia età».

Però risulta che la mitica squadra “Babbo passaci la palla” (composta da lui e dai due figli Tommaso e Giacomo,entrambi giocatori) spauracchio di tanti nei tornei estivi 3 contro 3 non giochi più...

«Colpa mia. Sono pigro e non faccio più niente oltre al lavoro in palestra. Non gioco più a tennis, non vado a correre. E allora a giocare contro gente di 25 o 30 anni non ce la facevo più e siccome sono uno a cui non piace perdere...».

Sì, questa ci sembra di averla già risentita. Esiste sempre quella regola non scritta fra lei e i suoi figli che la domenica sera parla solo chi ha vinto?

«Certamente. Ci telefoniamo sempre e ci raccontiamo com'è andata.Ma guai andare a rompere le scatole a chi ha perso».

I figli, appunto. Giacomo, il minore, è da anni uno dei lunghi più importanti della serie B che, a 25 anni, aspetta ancora una chiamata dalla serie A2 che potrebbe arrivare e Tommaso, grande protagonista delle minors toscane, uno dei principali artefici della recente promozione della Pielle in serie B, poi autoretrocessosi in D per una scelta di vita e di lavoro. «All'inizio – racconta Giacomo – chiamarmi Dell'Agnello è stato un peso. Ero cicciottello e non ero buono a niente e ho sentito qualcuno dire guarda luilì, ti pare possibile che sia figlio di Sandro? Con il passare degli anni è stato solo un privilegio, in estate stiamo parecchio insieme e continua a darmi dritte preziose. In più mi ha trasmesso la voglia di non perdere mai, fino a non dormire la notte dopo una sconfitta».

Ma torniamo al sessantenne (per l'anagrafe) Dell'Agnello.

Chiederle qual è stata la maggior soddisfazione da giocatore è forse troppo facile. Nella serie finale dello scudetto vinto con Caserta su Milano segnò 29 punti in gara 4 e 30 in gara 5. Non c'è male...

«Bè, si. Dico con una punta di orgoglio che credo che una cosa del genere non si sia mai più ripetuta, men che meno a un italiano. Ma forse la soddisfazione maggiore è stata un'altra. Eravamo a un raduno con la nazionale (108 presenze, terzo livornese di sempre dopo Lombardi e Massimo Cosmelli) non mi ricordo se in preparazione di un europeo o di un mondiale e un giornalista chiese a Cesare Rubini, che allora era il responsabile della nazionale maggiore, quali fossero le nostre possibilità. E “Il Principe” rispose: se avessimo 10 Dell'Agnello vinceremmo sia europeo che mondiale. Quando ci ripenso mi vengono ancora i brividi».

E da allenatore?

«Ho sempre allenato squadre che puntavano alla salvezza, spesso in situazioni economiche e logistiche non facili. Ma ho avuto la fortuna di poter giocare fino a 44 anni (ultima destinazione la Pielle in serie B, dove tutto era cominciato.) e quindi anche se ho 60 anni come allenatore mi sento relativamente giovane, il capo allenatore lo faccio solo da 14 anni. Quindi spero e credo che le soddisfazioni possano ancora arrivare».

Però a Forlì si salvezza non si parla...

«No, per fortuna. Sono tre anni che sono qui e mi trovo benissimo: è una bella città e lavoro per una società seria, con dirigenti competenti. Siamo una squadra fatta per lottare al vertice, anche se penso che Cantù e Udine abbiano qualcosa in più di tutte le altre».

Come festeggerà?

«Niente festeggiamenti. Con mia moglie abbiamo deciso di rimandare. Domenica ho perso e mi girano ancora. Non si festeggia tre giorni dopo una sconfitta». Capito perchè lo chiamavano Sandrokan, oppure El Grinta?

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