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Alluvione a Livorno
L’anniversario

Livorno, sette anni fa l’alluvione: dal terrore al processo, le testimonianze inedite dei sopravvissuti

di Federico Lazzotti

	I danni causati dall'alluvione nella notte tra il 9 e il 10 settembre
I danni causati dall'alluvione nella notte tra il 9 e il 10 settembre

La piena del Rio Maggiore in via Rodocanacchi, l’ondata in via Garzelli. Nelle parole dei sopravvissuti la paura vissuta nella notte tra il 9 e il 10 settembre 2017

10 settembre 2024
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C’è un prima che si fa fatica a descrivere. Perché in pochi lo hanno visto. Ma tutti quelli che c’erano l’hanno sentito. E lo ricordano come qualcosa di sinistro, inquietante. Un terremoto d’acqua che scava nei timpani e scaraventa in un’altra dimensione, quella della paura. È successo prima che Livorno si trovasse sott’acqua in una notte di fine estate di sette anni fa. Prima del fango e dello strazio per otto morti, delle mani in faccia per provare a non vedere quel dolore che ha travolto tutto e tutti. Prima del coraggio dei bimbi motosi e dei soccorritori che hanno coccolato le anime ferite e ripulito strade, campi e palazzi. Prima di un peluche sopra una bara fuori dal Duomo. Delle accuse dal pulpito e delle carezze per le strade. Delle frasi sbagliate, delle battaglie su applicazioni, previsioni, informazioni e delle iniziative per non dimenticare. Prima che arrivassero inchieste, accuse, udienze e sentenze (di primo grado). Prima che tutto cominciasse per rimanere nella memoria di chi c’era, tatuaggio sulla nostra pelle.

Ecco, nella notte tra il 9 e il 10 settembre del 2017, tutto è cominciato con un suono, un rumore continuo, insistente, che è cresciuto fuori da noi per entrare dentro di noi. Mai sentito né prima, per fortuna, né dopo. E speriamo che sia così per millenni ancora. Un rullante di una pioggia infinita. Un urlo prolungato della natura che si è abbattuto tra Chioma e Stagno. Il tentativo, violento e purtroppo riuscito del maltempo, di invadere le nostre vite, ingrossando fiumi, scavalcando ponti, cercando (e purtroppo riuscendoci) di sfondare tetti e finestre, inondando strade ed esistenze. È quel ticchettio continuo, prolungato, persistente, snervante, che se chiudiamo gli occhi e torniamo a quella notte sentiamo di nuovo. Ancora, come un brivido. Come una mitragliatrice. Come una maledetta premonizione. Che non va dimenticata.

Le analisi

2.555 giorni dopo quella notte, dalle analisi e dalle elaborazione dai dati forniti dalle stazioni pluviometriche di Valle Benedetta e Quercianella, utili per il bacino del Rio Ardenza, e finiti al centro del processo, i consulenti di parte sono giunti a stimare – si legge nella sentenza di primo grado firmata dal giudice Ottavio Mosti – che quell’alluvione abbia «un tempo di ritorno dell’evento pioggia in oggetto superiore a 2000 anni, tale da generare un flusso idrico nel reticolo idrografico del bacino di intensità tale da non poter sicuramente essere contenuto all’interno degli alvei». Dati incredibili e «assolutamente pacifici», condivisi – ed è stato l’unico aspetto della ricostruzione di quella notte fra accusa e difesa nel dibattimento. Detto della straordinarietà dell’evento, è altrettanto vero che quella notte la città non era pronta nemmeno a provare a contrastare quell’alluvione straordinaria. Con la protezione civile – lo dice la sentenza dove l’ex sindaco Filippo Nogarin è stato condannato a tre anni – lasciata in mano al solo Luca Soriani (geometra, esperto di incendi boschivi e micro-protezione) che «non aveva in meteorologia competenze adeguate». Per non parlare delle contromisure per evitare l’esondazione dei fiume, soprattutto il rio Maggiore, via di fuga troppo stretta e casse di espansioni insufficienti. Non a caso Regione e Genio Civile per mettere (o provare a mettere) in sicurezza le zone maggiormente colpite dal maltempo, in particolare intorno allo stadio e ai Tre Ponti, finiranno per spendere 100 milioni di euro. In sostanza – si legge ancora in un passaggio chiave della sentenza - «gli attributi di unicità e di imprevedibilità da riconoscersi al fenomeno atmosferico così come nei fatti si è rivelato e ai suoi effetti alluvionali, tuttavia, non possono estendersi in modo acritico all’evento mediato, ossia al decesso delle otto vittime delle esondazioni». In altre parole si poteva (e doveva) fare di più. Sperando che ciò che è stato fatto dopo serva affinché non accada di nuovo.

Via Rodocanacchi

Per raccontare il terremoto d’acqua attraverso chi lo ha visto in faccia è necessario leggere alcune delle testimonianze finite agli atti del processo. Come quelle degli abitanti di via Rodocanacchi, dove ha perso la vita la famiglia Ramacciotti (il piccolo Filippo, i genitori Glenda e Simone, insieme al nonno Roberto). Nazareno Traina, residente al numero 9, venne svegliato dai vicini che lo avvisavano dell’allagamento delle cantine condominiali. Affacciatosi alla finestra, constatò che il cortile corrispondente al civico numero 6, di fronte alla sua abitazione, si stava allagando. Uscito sulla strada si ritrovò «nel mezzo di un fiume che scorreva lungo la via in direzione di viale Nazario Sauro»; l’acqua — dice — «arrivava quasi all’inguine». Fatti alcuni passi con l’intento di accedere al cortile interno del condominio, dovette desistere in quanto il livello dell’acqua era troppo alto e la pressione aveva spalancato il cancello di accesso al cortile, forzando i pistoni elettrici.

L’uomo si vide perciò costretto a rientrare a casa e incontrò due giovani inquilini che abitavano nel piano seminterrato del civico numero 9, che erano riusciti a salvarsi uscendo da una finestra della loro abitazione. Bagnati e impauriti, vennero ospitati da una famiglia che viveva al pian terreno. Altro e più significativo testimone oculare è Marco Gini, residente al numero 8 di via Rodocanacchi. Nelle sommarie informazioni del 15 settembre 2017, ha ricordato che verso l’una e mezza aveva sentito aumentare la forza della pioggia ed aveva visto, dalla finestra, «un vero e proprio torrente d’acqua» lungo la rampa di accesso al livello della propria taverna, che in pochi istanti veniva allagata fino al settimo gradino. Col passare delle ore, l’acqua era ridiscesa fino al terzo gradino ma, verso le 5 aveva preso a risalire, tanto da iniziare ad invadere anche l’abitazione al piano terreno. Aveva deciso, a quel punto, di uscire, ma «la porta era bloccata»; lui e la moglie, per andarsene, dovettero passare dal porticato verandato posto sul medesimo lato della discesa alla taverna, ma al livello dell’appartamento. Aprendo la porta-finestra, un fiume d’acqua era defluito nell’abitazione e, con molta fatica, i due erano riusciti a spostarsi in viale Nazario Sauro, all’incrocio con via Rodocanacchi. In quel momento e in quel punto – racconta Gini – il livello dell’acqua era ancora basso. Improvvisamente, però, intorno alle 5, 40, mentre si trovava all’altezza del cancello del civico numero 2 di via Rodocanacchi, aveva sentito «un boato».

Si trattava, con ogni evidenza, dello stesso rumore percepito dal un altro vicino, prodotto dal crollo del muro di cinta del numero 29, il giardino di casa Ramacciotti, che aveva ceduto alla pressione dell’enorme massa d’acqua accumulata nelle pendenze dei condomini vicini, come si è potuto accertare attraverso la consulenza tecnica. Era l’inizio della fine che secondo gli esperti si sarebbe consumata in circa un’ora.

Via Garzelli

Nelle pieghe del processo ci sono decine di testimonianze che raccontano di persone che hanno sfiorato la morte. Per caso, per fortuna, per questione di secondi. Come in via Garzelli, dove ha perso la vita Martina Bechini, che si era sposata da pochi mesi e abitava in una casa al piano terra che dista alcune centinaia di metri in linea d’aria dai caseggiati di via Sant’Alò e di via della Fontanella, altre zone tristemente colpite. Nello stesso gruppo di case di una delle otto vittime vivevano altre «coppie giovani, sopravvissute - scrive il giudice - per loro buona sorte agli eventi di quella notte». Come Alessandro Boischio che con la moglie e il figlio di appena un mese abitava in via Garzelli 81/83. Agli inquirenti ha raccontato che la notte dell’alluvione, verso le 3,15, dunque circa mezz’ora dopo che erano andati a letto, sua moglie era andata in bagno e si era accorta che stava «sgorgando acqua sia dal water che dal piatto doccia». Pertanto, era andata immediatamente in salotto, rendendosi subito conto che dell’acqua «stava filtrando anche da sotto la porta di ingresso». Questa fase durava circa 10 minuti, fino a quando la pressione dell’acqua sfondava la porta finestra della cucina e invadeva l’appartamento.

Boischio riusciva a portare in salvo moglie e figlia al primo piano, dove era stato ricavato un locale tecnico. Sceso nuovamente nell’appartamento per soccorrere il cane e recuperare del latte per la bimba, ha riferito di avere nitidamente sentito «le urla di alcune persone», anche se non ha saputo riferire a chi appartenessero, se a Filippo (marito della vittima) o a Martina oppure a Manuel Novi, suo vicino di casa che nel frattempo, poi si è saputo, aveva trovato rifugio sul tetto.

Tornato al primo piano, Boischio - si legge ancora nella sentenza - si è affacciato dalla finestra osservando un panorama apocalittico: una fortissima corrente di acqua e fango che «trascinava con sé tutto ciò che trovava sul suo percorso, automobili, piccole casette e manufatti in legno, alberi, cassonetti dell’immondizia e detriti di ogni sorta». Una volta passata la piena, Boischio è tornato nella propria abitazione constatando gli ingentissimi danni e ha poi specificato che a nessuno nel condominio sapeva cosa «fosse successo a Filippo e Martina». Anche il vicino, Manuel Novi, sentito il 10 ottobre 2017, ha avuto modo di raccontare quello che gli è capitato quella notte. Novi abitava in un terratetto con la compagna e la loro figlia di appena cinque mesi al civico numero 75 di via Garzelli, quindi proprio nella casa accanto a quella di Martina e Filippo , spazzata via dalla forza dell’acqua. Ha spiegato come nel cuore della notte, intorno alle 4, sono stati tutti svegliati «dal rumore dell’acqua che entrava nella loro abitazione» e che, quando si sono guardati intorno, aveva raggiunto un livello di una decina di centimetri.

Dopo essersi preoccupato di soccorrere la figlia, Novi è riuscito, a differenza di altri, a mettersi in contatto telefonico con i vigili del fuoco, i quali – «al di fuori, vedremo, di qualsiasi coordinamento con il servizio di protezione civile del Comune di Livorno», che non aveva ancora attivato alcuna forma di efficace monitoraggio della situazione — gli impartivano il consiglio di mettere degli asciugamani davanti alle porte. Nessun riferimento, in quella conversazione, «alla necessità di salire ai piani alti e alla possibilità che gli effetti dell’alluvione peggiorassero». Dopo circa un quarto d’ora, Novi ha sentito «dei rumori forti provenire dal tetto e due boati, come scosse di terremoto, al secondo dei quali l’acqua ha sfondato la porta blindata e, testualmente, li ha travolti nel buio nei mobili che galleggiavano, ed è salita a due metri in pochi secondi».

Il resoconto drammatico di Novi prosegue con la descrizione del modo rocambolesco in cui lui, la compagna e la neonata si sono salvati: «Una volta riusciti ad emergere e a divincolarci tra i mobili ci siamo rifugiati sul materasso in camera da letto, punto più alto dove ripararci dato che il letto stava galleggiando, ormai, in prossimità del soffitto. Da qui ho sfondato la parte alta del vetro della porta finestra sotto di noi che da sul giardino lanciando gli oggetti che mi capitavano a tiro e ci siamo arrampicati sulla persiana esterna in tre con i corpi fino al bacino immersi nella corrente d’acqua». Sara (la compagna ndr) è riuscita a salire sul tetto «lasciando nostra figlia in braccio a me, dopodiché ho passato la bambina dove abbiamo atteso per più di due ore sotto la pioggia cercando di proteggere nostra figlia con i vicini che dai terreni dell’altra parte della strada lanciavano asciugamani asciutti (...) nella confusione venutasi a creare, non ho avuto modo di vedere Filippo (salvato miracolosamente ndr) e Martina; ho saputo quando sono sceso dal tetto che non erano in casa anche perché mi sono recato con altri a vedere come stavano e abbiamo saputo che la piena li aveva portati via con sé». Lasciando dentro tutti noi dolore e quel rumore.

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