Uccise la moglie a coltellate, prova a strangolare l’educatrice
Livorno, a maggio il delitto in via Guarducci, cento giorni dopo la furia dell’uomo nell’ascensore della residenza sanitaria. La donna salvata dagli agenti di polizia penitenziaria
LIVORNO. Il seme della violenza cresciuto dentro Luciano Rinaldi, 85 anni, ex camionista malato di Alzheimer, è sbocciato di nuovo cento giorni dopo aver ucciso a coltellate la moglie, Cosetta Barsotti, nella loro casa di via Guarducci, strada che divide il quartiere Stazione da via Garibaldi.
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Stavolta la furia dell’85enne, arrestato dai carabinieri all’indomani del delitto a cui è seguito un tentativo di suicidio, si è sfogata contro l’educatrice professionale che il 29 luglio scorso lo ha accolto e preso in consegna nella residenza sanitaria assistita Cardinale Maffi di Rosignano Marittimo. «Prima mi ha aggredita e poi ha cercato di strangolarmi. Solo per una casualità sono ancora viva», racconta Rita Bertini, 45 anni, dipendente della Rsa e residente in Val di Cecina.
Quello che è avvenuto all’interno della struttura dove l’uomo era stato trasferito perché considerato «non pericoloso», è stato ricostruito davanti al giudice Beatrice Dani che al termine dell’incidente probatorio e dopo aver chiesto il parere di un esperto, ha disposto per l’ex camionista padre di due figli, il trasferimento in un ospedale psichiatrico giudiziario.
«Tanto per me è finita». È il 21 luglio quando il giudice per le indagini preliminari che si occupa dell’indagine sul delitto di via Guarducci firma l’ordinanza con la quale dispone il trasferimento di Luciano Rinaldi dal carcere di Pisa, dov’è detenuto da due mesi, alla residenza sanitaria di Rosignano Marittimo. Il tentato omicidio è avvenuto all’interno dell’ascensore che dal punto di accoglienza avrebbe dovuto portare l’educatrice e l’85enne nella sua nuova stanza. Quello che è successo lo ha ricostruito il pubblico ministero Luca Masini nel capo d’imputazione dove contesta all’indagato anche le lesioni inferte ai due agenti di polizia penitenziaria che hanno salvato la donna. «Prima - si legge - le ha sferrato una serie di pugni al viso e sui fianchi, poi tirandola per i capelli e continuando a colpirla, l’ha trascinata sul fondo dell’ascensore e l’ha afferrata per il collo con il braccio destro stringendola con forza».
È a questo punto che l’aggressore ha iniziato a urlare: «Tanto per me è finita, tanto per me è finita». Prima «di continuare a colpire la donna con pugni sul viso, aumentando la stretta al collo e provocando una forte pressione sulla carotide cagionandole ipossia e cianosi». Un comportamento - secondo il pubblico ministero - che confermerebbe «la volontà di uccidere». Per fortuna però, l’educatrice è riuscita a trovare la forza per premere il tasto dell’allarme all’interno dell’ascensore attirando l’attenzione dei due agenti della polizia penitenziaria che poco prima avevano lasciato Rinaldi in consegna all’infermiera. «Ha provato a colpire anche noi con il passamano che aveva staccato poco prima dalla parete». Poi la resa e l’arresto.
Il processo. Sono servite tre udienze e la consulenza del professor Rolando Paterniti, direttore del reparto di psichiatria dell’ospedale di Careggi per ricostruire il profilo dell’ex camionista e accertare le sue condizioni mentali. In particolare verificarne la pericolosità sociale e la capacità di intendere e volere al momento del tentato omicidio. La relazione depositata dal perito lo scorso 15 dicembre all’ufficio del giudice per le indagini preliminari è arrivata a due conclusioni: al momento dell’aggressione la capacità di intendere e di volere era «completamente abolita», e si tratta di una persona «socialmente pericolosa». Ma c’è di più. «Sussistono - si legge in uno dei passaggi chiave della relazione - concrete possibilità che possa reiterare comportamenti antisociali se viene lasciato ma sé stesso senza adottare opportune misure sanitarie e logistiche atte a contenerne il pericolo».
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«Non è stato protetto». Subito dopo il delitto della moglie, furono gli stessi figli della coppia a denunciare di «essere stati lasciati soli a combattere contro la malattia che aveva colpito il padre».Evidentemente però la lezione non è stata percepita da chi doveva intervenire e tutelare sia l’85enne che le persone che lavoravano intorno a lui. Scrive il giudice Beatrice Dani in un passaggio dell’ordinanza che pesa come un macigno. «Il tentato omicidio troverebbe infatti verosimilmente una causa indiretta proprio nel non essere stato il Rinaldi adeguatamente preparato e protetto dal punto di vista farmacologico e psicologico».Ecco perché - è la conclusione alla quale arriva il magistrato nelle sue conclusioni - «è necessario disporre una misura di sicurezza di tipo detentivo».