Il Tirreno

L'intervista

Alberto Prunetti e i diseredati della Maremma: «Do voce al lavoro e a chi è stato rimosso dai libri di storia»

di Maria Meini
Lo scrittore Alberto Prunetti e la copertina del suo ultimo libro “Troncamacchioni”
Lo scrittore Alberto Prunetti e la copertina del suo ultimo libro “Troncamacchioni”

Lo scrittore di Piombino racconta la letteratura working class e il suo “Troncamacchioni” su personaggi dimenticati della storia del primo ‘900

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Nato a Piombino nel 1973, cresciuto a Follonica, la Maremma ce l’ha nel sangue Alberto Prunetti, alfiere e punto di riferimento italiano della letteratura working class. La storia dei diseredati, dei lavoratori, raccontata dai diretti protagonisti. E alla Maremma Prunetti ha dedicato il suo ultimo libro, “Troncamacchioni” (Feltrinelli editore) nome dall’onomatopea antica: andar per macchia, rompere la macchia, con forza, in mezzo ai cinghiali, nelle forre. Ma non è un romanzo naturalistico, è la prima prova storica dell’autore di una trilogia di successo: “Amianto. Una storia operaia” , “108 metri”, “Nel girone dei bestemmiatori. Una commedia operaia”. Oltre al saggio “Non è un pranzo di gala”.

Prunetti, con Troncamacchioni si è voluto cimentare con il romanzo storico, recuperando storie di personaggi popolari d’inizio Novecento, storie di cui chi è nato in Maremma ha sentito vagheggiare un po’ come una favola.

«Io sono nato a Piombino e cresciuto a Follonica, alla Maremma sono legato da ragioni personali e non solo: mi interessa la conoscenza storica di quel periodo, che precede l’avvento del fascismo, con la contrapposizione tra classe operaia e classe padronale. E poi venivo da una scrittura autobiografica, con tre romanzi in cui raccontavo la mia storia, quella di mio padre, e non volevo che diventasse un gioco narcisistico, un eccesso di sofferenza è rischioso. Così con Troncamacchioni ho voluto allontanare il focus da me, provando la terza persona e il passato. Col presente avevo già fatto i conti a lungo, volevo raccontare queste storie per tirarle fuori dall’oblio, storie di cento anni fa».

Sono storie di minatori, contadini, ciabattini, briganti, bestemmiatori… spesso analfabeti ma con le idee chiare, libertari, genuini: per raccontare queste storie ha fatto una ricerca d’archivio?

«Sì, sono partito dalle carte, che sono le carte del potere: è interessante leggerne la descrizione, frutto di delazioni di spie spesso false, con un linguaggio lombrosiano che accomuna e scheda queste persone in un’unica categoria dei nemici del potere. Sono le schedature contro zingari, sovversivi, matte… che ritroviamo in epoca fascista. I personaggi di cui parlo avevano tradizione libertaria, erano anarchici, socialisti, mazziniani, anticlericali, comunisti. Su tutta la costa, dalla Maremma a Piombino Elba e Rosignano, non c’è un paesino che non abbia una lapide dedicata a Pietro Gori».

Com’è passato dalle carte al libro?

«Uso in modo parodistico il linguaggio delle carte ufficiali, mi faccio carico della lingua del potere, retorica, mettendola a contrasto con la lingua viva dei miei personaggi, spesso analfabeti. C’è ad esempio una storia di tale Coli Temistocle, 72 anni, che è accusato di aver bastonato un carabiniere. Processato dal tribunale di Grosseto lui risponde in maniera involontariamente umoristica: “Sarà quello che mi dite, perché io avevo un po’ bevuto e non ricordo nulla”».

Ha lavorato da storico?

«Non sono uno storico di professione, ho però una formazione storica nelle mie letture. Ho utilizzato il materiale raccolto col rigore dello storico, ma al momento della scrittura ho fatto lo scrittore, ho voluto raccontare il dramma, seguendo la velocità, l’emozione della narrazione».

Lei dice che questa è l’epica stracciona di diseredati che non possono permettersi il lusso delle emozioni interiori. La psicologia è roba da ricchi? È borghese?

«I personaggi di cui parlo nel libro sono poveri, diseredati corrosi da malattie professionali, non hanno modo di esprimere le proprie emozioni».

Torniamo ad Alberto Prunetti, scrittore e traduttore, pioniere della letteratura working class in Italia e inventore del Festival della letteratura working class. Lei nasce scrittore con Amianto, il suo romanzo d’esordio pubblicato nel 2012 raccontando la storia di suo padre, operaio morto per l’amianto; ha proseguito con 108, che racconta la sua storia di lavoratore working class in Inghilterra. Ha trovato difficoltà a farsi pubblicare?

«Amianto parla della storia di mio padre, che è la storia di tanti altri morti di lavoro. Le case editrici lo rifiutavano perché dicevano che la storia era troppo triste. Ho cominciato a scriverlo nel 2010, pubblicato da Agenzia X, una stampa alternativa. Poi dalla casa editrice Alegre».

Ora lo pubblica Feltrinelli, come gli altri suoi romanzi, evidentemente il messaggio è arrivato per così dire al “grande pubblico” anche in Italia. Come definirebbe la letteratura working class?

«La cosa importante è raccontare le storie dei lavoratori dall’interno. Si può scrivere in molti modi senza farsi megafono: è un lavoro politico, conflittuale, un corpo a corpo sulle parole. Il senso delle parole è divisivo, intorno alle parole c’è conflitto. Noi ci facciamo carico della parola subalterna, con un’invasione di campo».

Una novità per l’Italia.

«Questa corrente letteraria già c’era in parte in Italia, penso ai poeti di fabbrica degli anni ’70. Nell’immaginario collettivo la working class è quella dei film di Ken Loach. In Italia si è cominciato negli anni ’60 a raccontare la fabbrica, in ritardo rispetto a Francia o Inghilterra, scontando la tardiva alfabetizzazione del nostro Paese, ma erano intellettuali che raccontavano gli operai. Nel dopoguerra ci sono comunque figure di proletari autoriali, persone cresciute nella classe operaia che arrivano a raccontarsi con le proprie parole. Sto parlando di persone che non avevano in casa libri, che si trovano a diventare “transfughi” di classe. Io ho lavorato per dieci anni nel settore della ristorazione, l’aspetto rilevante è il background. In Svezia ci sono associazioni di scrittori working class, soprattutto donne, che raccontano cosa vuol dire crescere in famiglie povere, facendo lavori con paghe al minimo sindacale. In Italia c’è Simona Baldanzi, operaia tessile del Mugello che ha scritto “Figlia di una vestaglia blu”, o Claudia Durastanti con “La straniera” che racconta dell’emigrazione dal sud Italia agl Usa e ritorno. In Francia Annie Ernaux (premio Nobel 2022, ndr) parla della vita di piccoli commercianti».

Due anni fa ha creato il festival della letteratura working class.

«L’abbiamo creato con il collettivo Gkn, e si è svolto proprio nell’area della fabbrica, a Campi Bisenzio. Gli operai hanno scritto la loro storia con un diario collettivo. Dal 4 al 6 aprile 2025 faremo la terza edizione».


 

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