Pronto soccorso di Livorno, perché è affollato: «Non urgente il 44% dei pazienti». Il problema dei codici verdi
Il primario Luca Dallatomasina: «Persone che sbagliano o pensano a scorciatoie». E il sistema soffre soprattutto nei codici verdi: «Qui possono esserci le insidie»
LIVORNO. «Di anno in anno, i pazienti che assistiamo, aumentano: erano 62.000 nel 2023, sono stati 67.000 nel 2024. E il personale diminuisce: l’Asl, ovviamente, i bandi li pubblica e ci aiuta, visto che ultimamente sono stati strutturati alcuni specializzandi, ma il problema è che sempre meno colleghi vogliono lavorare nella medicina d’urgenza. Si guadagna meno, dato che non si svolge la libera professione, si rischia di più e si lavora maggiormente. “Chi me lo fa fare?”, si chiedono in molti. È per questo che qui i sanitari non si trovano. Per di più, molte delle nostre difficoltà, nascono dai numerosi accessi impropri. Sapete su 67.000 pazienti quanti sono i codici bianchi o azzurri? 29.500, il 44%. Parliamo di pazienti che dovrebbero rivolgersi al medico di famiglia o alla guardia medica, che non hanno quindi alcuna urgenza di cure».
Numeri sempre più imponenti, con una buona fetta che si rivolge a viale Alfieri per «tentare la scorciatoia, provando a fare esami che con le impegnative e le visite dal medico di famiglia richiederebbero settimane». E il personale che diminuisce di anno in anno, nonostante in primavera verrà pubblicato un altro bando, perché medici, infermieri e operatori socio-sanitari preferirebbero lavorare altrove. A parlare è il direttore del pronto soccorso di Livorno, Luca Dallatomasina, che cerca di suggerire ai nostri concittadini come fruire al meglio del reparto di emergenza-urgenza da lui guidato e di fornire loro gli strumenti per una migliore autovalutazione da fare quando non si sentono bene e, allo stesso tempo, non hanno chiaramente gli strumenti per capire se scegliere il pronto soccorso o altre strade.
Dottore, i numeri degli assistiti sono molto importanti, in un anno sono aumentati quasi del 10%.
«Esatto e il carico del personale al lavoro, giocoforza, è sempre più elevato. Noi cerchiamo comunque di fornire a tutti una risposta, è il nostro obiettivo, i pazienti non possiamo certo rimandarli indietro».
Queste cifre mettono in evidenza che molte persone, al pronto soccorso, si rivolgono per problematiche non impellenti. Sono i cosiddetti “accessi impropri”, che tanti problemi creano all’intero sistema.
«Sì, spesso il paziente stesso viene qui cercando una “scorciatoia”. Faccio un esempio: se devi fare un’ecografia, normalmente, prendi l’appuntamento dal medico curante, poi cerchi un posto libero negli ospedali o privatamente, ma così passano almeno due settimane. Qui, invece, potresti anche fare tutto subito. Naturalmente la decisione spetta al dottore di turno, che spesso ha a che fare con pazienti che, documentandosi malamente su Internet o parlando con i propri familiari, pensano già di conoscere la loro patologia e le possibili soluzioni. Ti suggeriscono addirittura che bisogna fare una Tac, ad esempio. In ogni caso se il medico non ravvisa l’urgenza, l’ecografia non viene fatta. Ma è chiaro che qualcuno, questo tentativo, lo fa ugualmente, al prezzo di pagare il ticket e aspettare magari parecchie ore perché, per fortuna, chi non ha un’urgenza può aspettare, a differenza di chi è in pericolo di vita. Io, a chi aspetta molto tempo, dico sempre una cosa: voi potete permettervi in lusso di attendere, altri no».
Il cittadino, però, non ha gli strumenti per capire che problemi di salute abbia.
«Se la situazione è grave, è ovvio, deve sempre venire al pronto soccorso. Ma se il cittadino è indeciso, quindi vuol dire che qualche dubbio lo ha anche lui, è meglio se prima (avendone la possibilità) telefoni al medico di base per farsi indirizzare al meglio. Io, con i miei colleghi territoriali, parlo molto: c’è un ottimo rapporto ed è un collegamento, quello fra noi, che funziona e può senz’altro contribuire a decongestionarci»
Come fare quindi, nel concreto, per evitare il sovraffollamento?
«Difficile stabilirlo, dato che appunto questo è l’unico posto aperto 24 ore su 24 che non rimanda mai a casa nessuno. Serve sicuramente una medicina territoriale che funzioni meglio, il servizio regionale 116117 che, nonostante ora non stia dando grandi risultati, in futuro potrà senz’altro aiutarci. Penso poi ai posti nelle cure intermedie, che però sono ancora pochi rispetto alle reali necessità. E poi una collaborazione, che comunque già c’è, con i medici di famiglia: se i pazienti che stanno male e sono indecisi sul dà farsi telefonano loro prima di venire al pronto soccorso, magari un percorso più idoneo lo troviamo. Penso alle anemie non acute: abbiamo la possibilità di gestirle con il centro trasfusionale, evitando l’accesso al pronto soccorso, così liberiamo risorse e indirizziamo i cittadini verso il percorso migliore. Superfluo ribadire che se il problema anemico è grave, il paziente, lo prendiamo in carico noi».
E quali problemi crea, fattivamente, il sovraffollamento?
«Non crea rallentamenti sulle urgenze, dato che i codici “rossi” vengono trattati in tempo reale e i “gialli”, le urgenze immediatamente al di sotto del livello massimo, al più tardi in dieci minuti. Il problema del sovraffollamento rallenta la valutazione dei cosiddetti codici “verdi”, i terzi in ordine di importanza, perché fra questi si possono nascondere le maggiori insidie, dei problemi più gravi rispetto alle prime valutazioni. Ogni ora, infatti, dobbiamo sempre riconsiderarli, parlando con le persone e cercando di capire se sia mutato qualcosa rispetto al quadro clinico iniziale».
I codici “verdi”, sui 67.000 assistiti del 2024, sono stati molti?
«Sì, quasi la metà: 32.000. Sono le casistiche più frequenti numericamente parlando. Persone che come le altre dobbiamo assistere al meglio e che, ovviamente, trattiamo nel miglior modo possibile, tenendo conto dei problemi di sovraffollamento che abbiamo e delle urgenze che, ogni giorno, ci troviamo ad affrontare. Valutarli continuamente, e il compito spetta all’infermiere triagista opportunamente formato per questo, è fondamentale perché, lo ripeto, qui si possono nascondere gravità maggiori che, inizialmente, potrebbero non essere individuate. O comunque situazioni suscettibili di cambiamento. Ed è chiaro che più persone ci sono da assistere, maggiormente il personale lavora sotto stress. In ogni caso noi, le risposte, le diamo sempre e nei tempi corretti».
Spesso le persone si rivolgono erroneamente al pronto soccorso perché non hanno nessuno.
«Sì, abbiamo spesso a che fare anche con dei casi sociali, più che sanitari. Le persone, infatti, sono sempre più povere. Le famiglie non hanno la possibilità di ricoverare i propri cari nelle Rsa o non possono pagare una badante, per questo appena c’è un problema basilare si rivolgono alla nostra struttura. Il problema è sempre quello dell’assistenza territoriale, una criticità che affrontiamo anche dopo le dimissioni».
In che senso?
«Può capitare che quando dimettiamo le persone queste abbiano bisogno, nel giro di poco tempo, di una rivalutazione o comunque di un’assistenza. Tentiamo, in questi casi, di coinvolgere sempre il medico di famiglia. Voglio sottolineare, infatti, che il ricovero non sempre rappresenta la soluzione più idonea per il paziente e, laddove possibile, va incentivata l’assistenza domiciliare, anche perché (e mi riferisco soprattutto agli anziani) restare a casa propria, nella “comfort zone”, è sempre preferibile e in ospedale, per altro, c’è pure il rischio di contrarre infezioni poi non semplici da contrastare».
Se su 67.000 accessi totali 32.000 sono codici “verdi” e 29.500 “bianchi” o “azzurri”, 5.500 sono “rossi” e “gialli”. I più gravi rappresentano quindi appena l’8% sul totale dei pazienti assistiti.
«Le urgenze rappresentano, per fortuna, una percentuale assai minore sul totale degli accessi, ma sono quelle che ci impegnano di più. Solo per fare un esempio, quando dobbiamo assistere un paziente nella shock room ci sono almeno quattro persone a sua disposizione. È un grande impegno sia in termini di risorse, che di personale, che di tempo. C’è la vita di mezzo».
Recentemente, un paziente, si è lamentato di essere rimasto al pronto soccorso per ore senza bere e mangiare.
«Per le persone non autosufficienti abbiamo sempre una scorta di bottiglie d’acqua da mezzo litro: non passiamo come sui treni o sugli aerei con il carrellino, ma se viene chiesto da bere nessuno rimane senza. La caposala sa sempre dov’è l’acqua e si occupa dei rifornimenti, sia di giorno che di notte. Sul cibo, non essendo un reparto di degenza, normalmente non viene fornito. Ma se c’è bisogno, e dalla medicina generale avanza, noi il pasto lo somministriamo. La mattina, invece, facciamo sempre il giro fra gli assistiti per consegnare tè e biscotti. Nessuno rimane senza mangiare, naturalmente se può farlo, perché ci sono pazienti in condizioni di salute tali da non potersi cibare. Per di più, fuori, esistono due macchinette di snack e bevande. Può capitare che una non funzioni, ma comunque sono due e una eroga sempre i prodotti».
Il cibo, insomma, se richiesto non viene mai rifiutato.
«No, ma chi può mangiare generalmente non sta così male e, quindi, è normale che resti a lungo al pronto soccorso, dato che non viene valutato come caso urgente. Qui, la prassi, è curare le persone che hanno problemi di salute impellenti: noi non siamo medici di famiglia, non è il nostro lavoro e non lo sappiamo nemmeno fare. Invece, spesso, ci sostituiamo a loro perché chi si presenta qui non ha bisogno di cure urgenti. Naturalmente, con questo, non voglio dire che i pazienti del pronto soccorso debbano stare in un ambiente non confortevole. Anzi, noi facciamo di tutto per migliorare la loro attesa al triage, anche se non sarebbe questa la nostra priorità».