Spopolamento e degrado, Stefano Boeri: «La morte dei centri storici toscani? C’è solo una “cura” che li salverà»
Secondo l’architetto e urbanista è anche necessario regolamentare gli affitti brevi e salvare i piccoli borghi dallo spopolamento: «Sono il futuro dell’Italia»
Turismo, spopolamento, degrado. Cosa sta succedendo ai centri storici toscani? Lo raccontiamo ogni giorno: episodi di (micro)criminalità come a Grosseto, residenti in fuga, vedi Firenze, o sull’orlo di una crisi di nervi come in alcuni quartieri di Pisa o Livorno. Ecco il perché di una domanda apparentemente semplice: come far ritornare a battere il cuore delle nostre città alle prese con il cambiamento? La risposta diventa la chiave per un viaggio nel futuro tra urbanistica, filosofia e socialità. Ne abbiamo parlato con l’architetto e urbanista Stefano Boeri, professore ordinario del Politecnico di Milano e creatore del “bosco verticale” milanese. Ma anche del Prato Urban Jungle. Che quando parla di sostenibilità, città e futuro non ha dubbi: «Bisogna cominciare dalle disuguaglianze sociali», risponde.
Professore, le città e i centri storici toscani sono in difficoltà. Alcuni sono assediati dal turismo, altri invece si svuotano e basta di funzioni, lasciando spazio a ben altre attività. Cosa facciamo?
«Non sono certo un politico ma alcune cose si potrebbero fare. Certamente va regolato Airbnb perché genera una situazione di spopolamento in cui si perde quel presidio sociale rappresentato dalle famiglie che vivono e che abitano in un centro storico. Si creano le situazioni che ormai conosciamo tutti: piani terra trasformati in boutique e appartamenti in affitto a rotazione continua. Sotto un certo punto di vista, questa dinamica rende anche vivace e variegata la popolazione dei turisti. Dall’altro però viene meno la presenza delle famiglie, di chi cioè è abituato a conoscere quei luoghi e che conoscendoli li protegge e proteggendoli ne garantisce la qualità della vita. Quindi regolamentare Airbnb è una cosa che le città più grandi come Barcellona o Vienna hanno già fatto e che noi dobbiamo cominciare a fare. Ci vuole coraggio e spesso si va contro l'interesse dei piccoli proprietari e di quelle famiglie che dal centro storico si sono trasferite in periferica usando i soldi degli affitti e magari ne hanno guadagnato in qualità della vita. Ormai è diventata una forma di reddito».
È diventata una rendita.
«Esatto, una rendita o comunque una forma di crescita del reddito per tante famiglie e va osservata con molta attenzione. Un’altra strategia potrebbe essere poi convertire i contratti brevi in affitti più prolungati. In questo senso, per le città, la popolazione più indicata sarebbe quella degli studenti o di quei professionisti con un lungo periodo di permanenza: docenti, uomini d’affari o ricercatori. La terza possibilità infine è quella di diversificare il più possibile l’attrattività dei centri storici. Mi spiego meglio».
Prego.
«La Toscana non ha solamente Firenze, Lucca e Pisa. Sulla fascia appenninica ha decine di centri storici di straordinaria qualità, ciascuno con opere d’arte e piazze mirabili dal punto di vista urbanistico. Quel tipo di mondo lo stiamo abbandonando, si sta spopolando con una velocità vertiginosa. Quel tipo di mondo lì però è il futuro dell'Italia: non possiamo dimenticarci che investendo su quel mondo potremmo veramente rigenerare l'intero Paese».
Forse ci siamo impegnati molto per riqualificare le periferie e abbiamo tralasciato i centri storici? Non potrebbe essere ripensato in qualche modo anche il cuore delle città, piccole o grandi che siano?
«È chiaro che non si può demolire. Parlando però di piccoli centri storici è altrettanto chiaro che le famiglie di oggi hanno ben altre esigenze di quelle di duecento o trecento anni fa. Se tu non permetti che questi luoghi vengano riabitati dalle famiglie, allora è chiaro che tu blocchi la vita di questi piccoli centri. Io sono per una grande libertà di intervento sugli interni e per una forte attenzione alla conservazione delle facciate, delle coperture e in generale della forma urbana di questi luoghi».
Le alluvioni degli ultimi tempi ci costringono a ripensare il nostro modo di vivere in città e il nostro rapporto con la natura. C’è addirittura chi dice che non dobbiamo più pensare alla città del futuro ma a una città per il futuro. Cosa ne pensa?
«Ci attendono alcune grandi sfide. Una è quella delle disuguaglianze sociali che sono in crescita soprattutto nelle città. Famiglie ricche e famiglie povere, abitanti che hanno la possibilità di studiare e chi non ce l'ha, abitanti che hanno accesso ai servizi culturali e chi invece non ci riesce, persone che non hanno nessuna aspettativa di mobilità sociale e chi invece parte già avvantaggiato e in generale abitanti che hanno un'aspettativa di vita più alta di altri. Per esempio, lo dico sempre, a Torino è stata fatta una ricerca dalla quale è emerso che chi nasce in certe zone di periferia ha circa quattro anni di aspettativa di vita in meno di chi nasce in centro. Ecco, le città sono piene di queste cose. Quindi prima di tutto le disuguaglianze sociali: un tema fondamentale perché se non viene affrontato anche quello del cambiamento climatico non ha prospettiva e rischierebbe di portare vantaggi solo a chi li ha già. Cioè, non è piantando alberi dove già ci sono o togliendo le macchine alle persone che non ne hanno più bisogno che affrontiamo il cambiamento climatico. Deve essere un pensiero che coinvolge tutti i cittadini indifferentemente e per tutti dev’essere un progetto di miglioramento della vita».
Quindi la rivoluzione sociale porta con sé quella ambientale?
«Questa deve essere la transizione ecologica: non un progetto di sacrificio, ma un progetto di miglioramento della vita, anche economica. La terza grande sfida è quella dell'intelligenza artificiale e quello che porta con sé dal punto di vista delle decisioni, della conoscenza e dell'informazione sulla città. Ancora una volta stiamo parlando di un tema che è integrato con gli altri perché potremmo andare verso città più intelligenti, dove i cittadini sono informati e partecipano alle decisioni senza distinzione di reddito, di origine o di fede, oppure nella direzione opposta. Queste tre grandi sfide le si mettono in campo nella città esistente. In Italia non abbiamo più possibilità di progettare città nuove. Non ha più alcun senso perché c'è una crisi demografica profonda e le città si stanno già svuotando. Quindi in questo momento bisogna lavorare dentro le città, recuperando gli spazi abbandonati, sostituendo un enorme patrimonio di edifici che ormai è desueto, obsoleto, energivoro. Questo è quello che dobbiamo fare. Quindi le città per il futuro, o per meglio dire le città del futuro, sono le città esistenti su cui noi oggi progettiamo il futuro».
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