Famiglia risarcita dopo il femminicidio, le donne non sono uguali agli uomini anche nella morte
Il caso di Vanessa Simonini con i soldi pagati ai familiari dallo Stato perché l’assassino è nullatente. Le vittima di mafia o terrorismo valgono 200mila euro, quella di femminicidio appena un quarto
Dice il tribunale di Roma che 50mila euro di indennizzo ai genitori di Vanessa Simonini, strangolata a venti anni, non sono una cifra “irrisoria”. Non vengono pagati dallo Stato come risarcimento del danno - quello spetterebbe all’assassino - ma vengono liquidati perché il femminicida risulta nullatenente.
Dice, quindi, il tribunale di Roma, che la somma liquidata ai genitori di Vanessa è equa. Beh, non lo è. Per tanti motivi che è perfino complicato elencarli. Intanto, questo indennizzo arriva con nove anni e interminabili processi di ritardo. La direttiva europea del 2004 che impone agli Stati di indennizzare le vittime di reati intenzionali violenti non prevede un’attesa così lunga: pensate a una donna vittima di stupro che debba andare per tribunali nove, dieci anni a rivivere (dopo il processo penale) la propria violenza, per ottenere 25mila euro di indennizzo statale se il suo stupratore è un nullatenente. Vero o presupposto.
Poi c’è un possibile profilo di incostituzionalità nel decreto del 2019 che fissa gli indennizzi di Stato per le vittime di reati intenzionali violenti, fra i quali rientrano i femminicidi. E se non ci si volesse vedere un profilo di incostituzionalità, c’è un profilo di ingiustizia sociale: infatti, per le vittime di mafia, di terrorismo, della “Uno bianca”, di usura, dell’eccidio di Kindu e così via - lo Stato riconosce, con leggi speciali, un indennizzo di 200mila euro (oltre a vari benefici). Senza spiegare che differenza ci sia fra una donna assassinata dall’ex o dal marito e una persona uccisa dalla mafia. Secondo l’articolo 3 della Costituzione non esistono differenze: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Invece lo Stato ha per decenni operato queste distinzioni.
Fino a quando alcune giuriste e docenti dell’università di Pisa (Valentina Bonini) e della Scuola superiore Sant’Anna (Gaetana Morgante e l’attuale preside della Classe di Scienze Sociali Anna Loretoni) insieme a Il Tirreno hanno denunciato le inadempienze dell’Italia. E hanno avviato una campagna serrata contro la discriminazione giuridica e culturale nei confronti delle vittime di violenza. Fino al 2016 lo Stato non indennizzava le vittime di violenza se italiane: “liquidava” solo le straniere aggredite in Italia. Condannato dalla Corte Europea di Giustizia perché indennizza solo le vittime di reati “speciali”, selezionati, lo Stato impiega un anno a stabilirei nuovi indennizzi, che Il Tirreno, UniPi e Sant’Anna battezzano “Listino della vergogna”: una donna uccisa vale 7.200 euro (8.200 con figli); una stuprata: 4.500 euro. Si avvia una campagna che nel 2019 porta alla revisione degli indennizzi. Con un percorso a ostacoli: prima indennizzi riconosciuto solo a donne o famiglie con redditi sociali, perché le altre non soffrono); poi divieto di riconoscere gli indennizzi per gli anni arretrati. Tutto rimosso. Meno l’ostacolo vero: la diseguaglianza.
Le donne non sono uguali agli uomini in vita. E non lo sono neppure in morte.