Alessandro Ferrucci e il libro sui vip con Livorno nel cuore
Il giornalista e figlio dello storico e indimenticato editore Franco racconta "Non sai cos’è successo”: «Ho scoperto una Lamborghini e un Verdone che non mi aspettavo»
LIVORNO. «Con Livorno ho un rapporto talmente viscerale, un amore sconfinato che, da quando non c’è più mio padre, soffro a venire. Ogni volta che mi trovo intorno al Romito metto la canzone “Madame Sitrì” di Bobo Rondelli e mi escono le lacrime». Alessandro Ferrucci è un bravo e stimato giornalista del “Fatto Quotidiano, ma anche il figlio di Franco, amatissimo e indimenticato “libraio”, fondatore della libreria Gaia Scienza (oggi Feltrinelli) e della casa editrice Erasmo. Da anni, ogni domenica, realizza un’intervista a un personaggio famoso: e, arrivato a quota 400, ha deciso di unirle in maniera in un libro “Non sai cos’è successo” uscito nelle ultime settimane per Paper First.
Programmare interviste settimanali a personaggi di fama, non è impresa semplice, come fa?
«Una questione di allenamento e di pazienza. Quando esco, guardo un film o parlo con le persone la prima cosa che penso è se può starci un’intervista o meno. Insomma, deformazione professionale».
Come nasce l’idea del volume?
«Io mi rendo conto che l’intervista funziona quando mi procura almeno un paio di “brividini”. De Laurentiis giudicava il successo dei film a seconda dei boati. Incaricava qualcuno dei suoi ad andare di nascosto nei cinema per verificare le reazioni del pubblico. Al terzo boato diceva “ok, il film funziona”. Per me vale la stessa regola. Ho ritenuto che, quelle parti da “brividi”, non potessero esaurirsi in una sola pubblicazione; perché fanno parte della memoria collettiva. E quindi le ho “salvate”».
Quanto ha impiegato ad assemblarle?
«Alcuni mesi. Avevo chiaro ciò che volevo. Il progetto era dentro di me, maturato mentre effettuavo le ultime interviste. Ho unito un qualcosa che già c’era. Come le costruzioni Lego, dove sai già perfettamente dove vanno i pezzi».
Qual è il segreto per fare una bella intervista?
«Prepararsi. Occorre tempo per informarsi, leggere e ricercare. Chiamo gli amici, incrocio i dati, voglio che sia tutto vero. Poi è importante stare zitti, ascoltare: come faceva Red Ronnie nel mitico Roxy Bar, che “obbligava” l’intervistato a proseguire nella risposta, quando questa sembrava ormai esaurita. Attimi che provocano un imbarazzo totale. Il protagonista deve entrare in comfort zone. Il giornalista deve avere orecchio, decifrare il tono della persona che ha davanti; e capire se è un tono da risposta pre-organizzata o reale, che stupisce anche lui».
Una curiosità “dietro le quinte”?
«Elettra Lamborghini mi ha stupito tantissimo: pensavo fosse una persona con maggiore presa e maggiore sicurezza in se stessa. Mentre lei non sopporta le domande che vanno fuori dal suo seminato, tanto che si è scocciata e mi ha accusato di farle un esame da terza media. Le avevo chiesto se conosceva Ugo Tognazzi. L’intervista è finita male: io me ne sono andato e anche il suo ufficio stampa l’ha lasciata».
Cosa rispose su Tognazzi?
«"Non lo conosco, io ascolto un altro tipo di musica". Ma c’è altro».
Prego ci racconti.
«Vado a intervistare Verdone: alla fine, mi alzo, e zoppico leggermente. E lui “cos’hai”? “Mi devo operare all’anca”. Mi ha tenuto quasi un’ora a parlare di protesi e di anti infiammatori. Poi mi ha salutato perché ha citofonato una famosa attrice che andava da lui perché aveva problemi al colon e lui doveva dargli una cura. Mi disse: “Alessandro, il vero artista ha sempre il colon infiammato».
Arrivano le prime soddisfazioni.
«Una signora mi ha detto: "il libro l’ho comprato, l’ho lasciato in salotto. Ogni tanto i miei figli lo sbirciano, mi chiedono e ridono”. Ed è la cosa più bella del mondo: il mio è un tentativo di non perdere la memoria di unire le generazioni. I ragazzi possono scoprire soggetti personaggi protagonisti, che non conoscono, ma fanno parte di loro».
È prevista una presentazione a Livorno?
«A gennaio. La farò nella libreria che ha fondato mio padre. Una cosa che va oltre, una nemesi, una catarsi. Con la consapevolezza che sarebbe stato talmente orgoglioso di questo da imbarazzarsi, diventare rosso. E alla fine mi avrebbe detto: “bravo bambino”. Perché nonostante l’età, per lui ero sempre bambino». l
© RIPRODUZIONE RISERVATA