La vertenza
Il calcio e le canzoni ve li racconto io (ma non ce la faccio a parlare sottovoce)
Aldo Agroppi a cuore aperto: la passione per musica e pallone Con la voglia caparbia di non restare zitto di fronte a quel che non va
l’intervista
elisabetta arrighi
Per una volta dimentichiamoci che è stato un calciatore del Torino e della Nazionale, un allenatore, uno scrittore (con “Non so parlare sottovoce” edito da Cairo è stato tra i vincitori del Premio Selezione Bancarella Sport 2018), un commentatore televisivo, opinionista e grande polemista, dote che lo contraddistingue. Insomma, un “toscanaccio” verace. Così invece che dal pallone, cominciamo parlando di musica che per Aldo Agroppi, al pari del calcio, è una “compagna” di vita. Ha una collezione infinita di dischi e mentre chiacchieriamo si mette perfino a canticchiare qualche successo di quegli anni musicali che per lui sono stati favolosi. L’intervista la facciamo in un pomeriggio di luglio nel giardino della sua bella casa di Salivoli, zona residenziale di Piombino affacciata sul mare. Il cane Jack gironzola attorno al tavolo con un giochino in bocca. Il panorama è spettacolare: piazza Bovio sulla sinistra, sulla destra l’Elba e l’isolotto di Palmaiola. Spira un leggero maestrale, Aldo Agroppi si versa un bicchiere di chinotto.
«Ero un ragazzetto quando cominciai a collezionare dischi, – racconta – prima della partenza per Torino. Gli anni erano quelli fra il ’58 e il ’60. E non esistevano quelle band tutte piene di tatuaggi che vanno oggi per la maggiore. Io non riesco ad ascoltarle per più di 20 secondi… Mi sembra di vedere dei matti imbacuccati. Sono rimasto alle canzoni di allora».
E qual era il cantante preferito del giovanissimo Agroppi?
«Elvis Presley, ma ce n’erano tanti altri di cantanti bravi. Fra gli americani Pat Boone, Paul Anka, Neil Sedaka. C’erano poi i Beatles e in Italia Domenico Modugno, Celentano, Peppino di Capri, Massimo Ranieri, Gianni Morandi. E Mina, che era la regina incontrastata. È vero, credetemi è accaduto, di notte su di un ponte guardando l’acqua scura con la dannata voglia di fare un tuffo giù – canticchia Agroppi – D’un tratto, qualcuno alle mie spalle, forse un angelo vestito da passante mi portò via dicendomi così… “Meraviglioso” è il titolo della canzone di Modugno. Un testo che sollecita a guardarsi dentro e intorno a noi. E quell’angelo vestito da passante: da brividi. Erano canzoni con l’anima».
Quanto “tifa” Festival di Sanremo?
«Sanremo? Non lo ascolto. Il festival è diventato la passerella per queste attrici e showgirl che fanno a gara a chi è più rifatta, più vestita, più bella. Le canzoni passano in secondo piano. Sono anni che non vedo il Festival, io sono rimasto a quelli dei Cinquanta, Sessanta, Settanta».
Estate 2021: Orietta Berti con Fedez e Achille Lauro è regina delle hit con il tormentone “Mille”. Che ne pensa?
«La Berti è bene che canti ‘Finché la barca va”, io ascolto le sue canzoni degli anni Sessanta. Di questo tormentone non so nulla».
Secondo lei qual è la canzone che meglio rappresenta l’estate?
«“Nessuno al mondo” di Peppino di Capri, dedicata a mia moglie Nadia con la quale sono insieme da sessant’anni. È patrimonio dell’Unesco visto che riesce a sopportarmi. Ci siamo messi insieme quando io avevo 16 anni e lei 14 e non ci siamo più lasciati. Anche Nadia è nata come me a Piombino: io abitavo in via Pisa, a ridosso del porto e delle Acciaierie, lei in Piazza Bovio, aveva una finestrella che guardava il mare. Io peril calcio sono andato a Torino, ho girato l’Europa, ho visto tante città, ma come Piombino non ce n’è. Qui ci sono pace, mare, bellezza e gli amici. Piazza Bovio è la più bella del mondo. Si parte, dissi a Nadia tanto tempo fa, ma poi si ritorna».
Lei ha parlato della bellezza di Piombino, cosa che invece i turisti non sembrano apprezzare…
«Per forza. Il turista arriva, gira a sinistra e va al porto, e lì vede quello che c’è. Cioè le banchine e le Acciaierie, che ci hanno dato da mangiare per decenni ed oggi non fumano più. Se non ci fosse il mare sarebbe tutto più brutto. E invece proprio il mare è uno dei più belli che io conosca e ci sono certi tramonti: li fotografo con il cellulare e spedisco le immagini a tutti».
Quanti anni aveva quando lasciò Piombino?
«Andai a Torino nel 1961. Avevo 17 anni. Lasciavo la fidanzata di 15, la famiglia, gli amici, la spensieratezza della gioventù, il mare, la mia città dove avevo conosciuto la miseria, ma dove c’era anche tanto amore. Qui potevi lasciare la chiave infilata nell’uscio di casa. La sera tutti noi del casamento stavamo fuori a chiacchierare. Babbo lavorava alle Acciaierie, la merenda era pane e zucchero oppure pane imbevuto nel vino. A volte per cena c’era solo una scodella di latte con il pane avanzato del giorno. Anche se con le toppe al culo era un bel vivere. Prima della partenza provavo grande entusiasmo e tristezza al tempo stesso. Ma era un’occasione che non potevo lasciar perdere. Non avevo un titolo di studio, che avrei fatto a Piombino? L’unico destino possibile sarebbero state le Acciaierie. Allora lacrime e baci a tutti. Andavo incontro a qualcosa che non conoscevo, ma avrei avuto la possibilità di poter vivere una vita migliore. A Torino ci furono momenti difficili: militavo nelle giovanili del Toro, ma non giocavo. Pensai anche di tornare a casa, però tornare da sconfitto non mi piaceva. E allora mi imposi di fare il calciatore sul serio».
Dopo che cosa accadde?
«Andai in prestito a Genova, Terni, Potenza. Poi tornai a Torino, dove c’era anche un altro piombinese, Lido Vieri, che era un bravo portiere, il più bello di tutto il calcio. Mi chiamava angoscia oppure agonia. Poi il debutto in serie A, il matrimonio, i figli Nilio (stesso nome del fratello scomparso nel 1960 a 22 anni, nda) e Barbara».
Può raccontare il suo debutto in serie A?
«Campionato 1967-1968. Giocavo da mediano, quando il titolare Bolchi s’infortunò. Eravamo alla quarta giornata e si giocava in casa contro la Sampdoria. Era il 15 ottobre ’67, una data che non dimenticherò mai. Vincemmo 4-2. Una grande gioia, che si trasformò subito dopo in tragedia. La stessa sera Gigi Meroni venne investito in centro a Torino e morì sul colpo. Quel giorno perse la vita un campione, un fenomeno del calcio, un bravo giovane. Alla fine ho giocato più o meno 280 partite e segnato una trentina di reti, rimanendo otto anni di fila a Torino. La mia vita in maglia granata è stata meravigliosa e non ho rimpianti per non aver giocato in grandi club».
Qual è stato il suo giocatore-mito?
«Omar Sivori. A Torino andavo a vederlo mentre si allenava con la Juventus. Il mio sogno era incontrarlo. Poi Sivori andò a Napoli, dove giocò per due anni. Ed ecco il destino (una parola che Agroppi ha ripetuto più volte durante l’intervista, nda): il secondo anno mi toccò di marcarlo in campo. Pensate un po’: io, nato in via Pisa a Piombino dove giocavo con la palla di cencio, in campo a marcare il grande Sivori».
I ricordi si susseguono a ritmo incalzante, compresi quelli degli anni da allenatore. Rammenta più volte Romeo Anconetani il presidente del Pisa che Agroppi portò in serie A all’inizio degli anni ‘80. Poi il trasferimento a Padova, lasciata dopo tre mesi a causa di problemi depressivi. Quindi il Perugia che restò in corsa per la promozione fino all’ultima giornata (’84-85), e infine Firenze. Un periodo (il primo, perché ci fu un ritorno) che vide Agroppi in contrasto con la tifoseria viola perché non faceva giocare Giancarlo Antognoni. Nel marzo 1986 venne addirittura aggredito mentre usciva dallo stadio e “salvato” da Daniel Passarella.
E arriviamo agli Europei conquistati dagli Azzurri a Wembley. Gli è piaciuta questa Italia vincente targata Roberto Mancini?
«Ha vinto la squadra migliore grazie ad allenatori che non capiscono nulla», risponde. Ma l’espressione usata è molto più colorita, e il riferimento è a scelte di altri tecnici, come quella di Luis Enrique, ct della Spagna, che - dice Agroppi - ha lasciato a casa un campione come Sergio Ramos.
«Mancini ha fatto grandi cose, grazie anche al suo staff dove ci sono Gianluca Vialli, e altri ex Sampdoria degli anni d’oro, quando il ct giocava in attacco. Gestire come ha fatto un europeo per un mese non è semplice. Mi sono divertito guardando le partite, ma fare l’allenatore oggi è da pazzi. Se non reggi il colpo, lo stress ti mangia e finisci al sanatorio. Mancini è invece riuscito a mettere su un gruppo di bravi ragazzi». E ce n’è per i giocatori inglesi dopo la sconfitta ai rigori (la medaglia subito tolta dal collo) e per il ct Gareth Southgate. «Gestisci una delle nazionali più importati del mondo – commenta – e quando arrivi ai rigori, senza considerare l’emozione del momento, fai calciare due ragazzini di 19 anni?».
Mancanza totale di psicologia. Agroppi non ha dubbi: «L’allenatore deve essere anche psicologo». Deve entrare nella testa dei giocatori e agire di conseguenza. —
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