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Caterina Falleni, un cuore amaranto batte dentro Meta: «Rendo i social accessibili a tutti. Livorno? È dentro di me»

di Luca Balestri
Caterina Falleni, un cuore amaranto batte dentro Meta: «Rendo i social accessibili a tutti. Livorno? È dentro di me»

La trentacinquenne oggi vive a San Francisco con il marito e due figli e guida un team che sta lavorando alla rivoluzione digitale: «Ho iniziato progettando un frigo senza fili. Della mia città mi mancano gli scogli e la parlata »

21 giugno 2024
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LIVORNO. «Il ricordo più bello che ho di ogni esperienza sono le persone», inizia a raccontare la sua carriera e quindi la sua vita Caterina Falleni, livornese che porta alto in giro per il mondo il colore amaranto. La trentacinquenne infatti oggi vive a San Francisco, in California, insieme a suo marito, e i suoi due splendidi bambini. La livornese lavora per Meta, e attualmente è a capo di una squadra che ha come obiettivo quello di rendere Facebook, Instagram, Messenger e Whatsapp sempre più accessibile a tutti.

Falleni, prima di approdare in California aveva già fatto diverse esperienze all’estero.

«La mia prima esperienza lavorativa è stata in Olanda, a Rotterdam. È stata positiva come prima esperienza, erano tutti accoglienti e ho imparato molto. Ma al contempo ho conosciuto anche la rigidità degli olandesi. Poi ho avuto esperienze lavorative anche in altri posti, come in Finlandia e in Tanzania. In ogni luogo ogni persona mi ha insegnato qualcosa».

Non solo terraferma. Dieci anni fa ha attraversato l’Oceano Atlantico in barca a vela, per un progetto di ricerca sulle plastiche galleggianti. Com’è cambiata la sensibilità verso l’ambiente oggi?

«Oggi le persone sono più coscienti e si informano di più sull’ambiente. Questo anche grazie agli ultimi movimenti e a Greta Thunberg, che sicuramente hanno dato un input alla coscienza collettiva. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Anzi, l’oceano –ride-. San Francisco è stata una delle prime città a rimuovere legalmente la vendita sul suolo pubblico di bottigliette di plastica, e questo ha dato forza anche ad altre città nel mondo. Ma c’è ancora tanto da fare, soprattutto a livello aziendale».

Oggi c’è ancora troppo consumismo insomma.

«Quando mi sono iscritta all’Isia (Istituto superiore per le industrie artistiche, ndr) di Firenze ero affascinata dall’idea di progettare prodotti tangibili. Ma poi il mio percorso di vita mi ha portato a riflettere sul consumismo, che oggi è eccessivo, ed è per questo che oggi lavoro nell’ambito del design digitale».

Qual è la sfida più grande che hai affrontato nel mondo del design?

«Le sfide ci sono in ogni fase della vita. La mia sfida più grande è stata quella di trasformarmi da designer del prodotto fisico a designer del prodotto digitale, anche proprio per frenare il consumismo. Per questa trasformazione mi sono autoformata, è stata una bella sfida».

E oggi il tuo obiettivo qual è?

«Dal 2025 tutte le aziende digitali dovranno avere nuovi requisiti minimi di accessibilità. Lo stabilisce la European accessibility Act, una direttiva europea. Vale per le aziende che operano nell’Unione Europea, ma stiamo migliorando i criteri per rispettare la direttiva anche qua. Con il mio team voglio raggiungere questo obiettivo».

La tua prima grande invenzione è stato il Freejis, il frigo senza corrente, oltre dieci anni fa. Come ti è venuta questa idea?

«L’estate prima che mi laureassi sono stata a Zanzibar, dove abita mia zia. Voleva che le dessi una mano sull’isola per alcuni progetti di interior design. Così mi accorsi che le abitazioni sull’isola erano strutturate con materiali poveri. Fu a quel punto che capii che quei materiali erano adatti anche per testare un prodotto che potesse refrigerare. Quindi in tre o quattro mesi progettai questo frigo, che fu anche l’oggetto della mia laurea. E non solo: anche la mia tesi di master ebbe il frigo come oggetto. In questo caso approfondii la sostenibilità del prodotto».

E a proposito di sostenibilità, un suo successivo progetto è stata la Wooden Cycle, la bicicletta di legno.

«Questo progetto mi fu proposto da un amico, che conosceva un imprenditore indonesiano che stava ereditando una ex industria, con tanta legna, pregiata. Non volendosene disfare, progettammo la bicicletta sostenibile con il legno che era rimasto nella zona dismessa».

Il nome delle bicicletta fu Her. Da cosa deriva?

«Ero molto entusiasta di fare questa bicicletta. Ed era il periodo della prima grande ondata di intelligenza artificiale. Her è il nome del robot di cui il protagonista di Her, il film di Spike Jonze, si innamora. Da qui l’idea: ogni linea della Wooden Cycle corrispondeva alla personalità di uno dei personaggi del film. Ero ossessionata dal film Her».

E poi è approdata alla Nasa, che tutti vediamo sempre nei film. Cos’ha realmente di cinematografico?

«Ho avuto l’occasione di lavorare alla Nasa, al centro Moffet Field, nella città di Mountain View, una delle prime sedi ad essere costruita, negli anni Trenta. La cosa più cinematografica è il percorso per arrivare in sede: dall’autostrada si vede un hangar gigante, l’Hangar One. E ci sono varie leggende urbane su cosa si facesse là dentro: qualcuno dice dirigibili. Ma alla Nasa? Strano».

E l’edificio Nasa era “spaziale”?

«Mi immaginavo di trovare una Nasa supertecnologica, ma sono rimasta stupita perché l’edificio era quasi fatiscente. Per esempio, il wifi andava a malapena. Nessuno si immaginerebbe questo della Nasa».

Poco tempo fa ha pubblicato un libro. Per scriverlo ha usato ChatGpt. È uno strumento che dà solo opportunità o che implica anche dei rischi?

«Uso ChatGpt quasi tutti i giorni: velocizza il lavoro, è fantastica. Ma ovviamente c’è da riflettere molto a riguardo: si deve far sì che l’intelligenza artificiale non venga più programmata con le distorsioni della mente umana. Infatti, se si cerca su Google “pilota” esce un uomo alto, biondo, bello. Se si cercano persone che fanno le pulizie escono soprattutto donne, che vengono quasi sempre da posti remoti».

Ti manca Livorno?

«Di Livorno mi mancano la parlata e la schiacciata. E gli scogli: preferisco il Mar Mediterraneo all’oceano Atlantico. L’acqua qui è sempre fredda, ed è pericoloso buttarsi in acqua, ci sono sempre squali, foche e altri animali».

A proposito di mare: a San Francisco non c’è il cacciucco.

«Qua è difficile fare il cacciucco, ma faccio spesse delle zuppette di pesce. Comunque qua c’è il “choppino”: gli americani pensano sia una sorta di cacciucco portato negli Usa dagli italiani che sbarcarono a New York il secolo scorso. Ma non ha niente a che fare con il nostro: è fatto con gamberetti e pesce bianco».

Cosa consigli ai livornesi che hanno sogni da realizzare?

«Ragazzi, buttatevi! Fate nuove esperienze, esplorate il mondo, anche per avere dei metri di paragone. Non abbiate paura di lasciare Livorno indietro: Livorno sarà sempre con voi».

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